24 Settembre 2021

Le dichiarazioni di madre e sorella sui versamenti sospetti non rappresentano una valida prova contraria

di Angelo Ginex
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In tema di accertamento bancario, le dichiarazioni introdotte dal contribuente, al fine di fornire la prova contraria tale da dimostrare, in modo oggettivo e determinato, natura e origine delle movimentazioni bancarie, e così superare la presunzione legale relativamente alle operazioni di accredito ed addebito, non sono idonee se rese da terzi legati da vincoli familiari, prive di data e provenienza certa, e comunque di ulteriore riscontro probatorio. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 25804, depositata ieri 23 settembre.

La fattispecie in esame prende le mosse da un accertamento bancario con cui l’amministrazione finanziaria rideterminava il reddito del contribuente, recuperando a tassazione i (presunti) redditi non dichiarati. Al fine di contestare i maggiori ricavi dedotti dalle movimentazioni bancarie, l’avviso veniva impugnato dinanzi alla competente Commissione tributaria provinciale, la quale rigettava il ricorso. Anche i giudici di appello respingevano il gravame fondato sull’illegittimità del provvedimento impositivo, ritenendo corretta la valutazione del primo giudice circa i presupposti per l’accertamento operato ai sensi dell’articolo 32 D.P.R. 600/1973. Infatti, la Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna riteneva che le prove addotte dal contribuente non avessero offerto elementi di prova sufficienti a superare le presunzioni.

Pertanto, il contribuente proponeva ricorso in Cassazione lamentando, tra gli altri motivi, la violazione dell’articolo 32 D.P.R. 600/1973 e dell’articolo 51 D.P.R. 633/1972 per non avere riconosciuto la sufficienza delle prove allegate a giustificazione delle operazioni di versamento e prelievo dal conto corrente bancario. In particolare, secondo il ricorrente, il giudice d’appello aveva errato nel negare valore alle dichiarazioni di terzi prodotte a dimostrazione della provenienza dei versamenti sul proprio conto corrente, precisamente rese dalla madre e dalla sorella.

La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile la suddetta doglianza, osservando che, così come correttamente rilevato dai giudici di merito, le dichiarazioni introdotte dal contribuente non potessero considerarsi attendibili per tre ordini di ragioni: la provenienza da familiari, l’assenza di data certa e la mancanza di ulteriori riscontri probatori. Pertanto, la valenza indiziaria delle dichiarazioni non è stata ritenuta sufficiente a superare il dato oggettivo delle operazioni bancarie e delle presunzioni ad esse riconducibili.

Come rammentato dai giudici di legittimità, nel contenzioso tributario, al contribuente, al pari dell’Amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta la possibilità di introdurre nel giudizio innanzi alle Commissioni tributarie dichiarazioni rese da terzi in sede extra processuale (in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui all’articolo 111 Cost. e 6 CEDU) e ad esse va riconosciuto valore probatorio, trovando collocazione tra gli elementi indiziari che il giudice deve valutare nel contesto probatorio emergente dagli atti (cfr., Cass. sent. 27.05.2020, n. 9903).

A tal fine, pertanto, resta in capo al giudice tributario il “potere-dovere” di valutare l’attendibilità del contenuto delle dichiarazioni nell’alveo della corretta applicazione del principio della libera valutazione delle prove, al fine di riscontrare la credibilità dei dichiaranti in base ad elementi soggettivi ed oggettivi, quali la loro qualità e vicinanza alle parti (cfr., Cass. sent. 27.02.2020, n. 5340).

Pertanto, contrariamente a quanto eccepito dal ricorrente, il giudice dell’appello ha fatto corretta applicazione dei principi su esposti. Ha concluso infatti la Corte che: «dalla motivazione della pronuncia impugnata emerge che le dichiarazioni non siano state ignorate, ma valutate, e le critiche mosse dalla difesa del ricorrente in realtà sollecitano una rivalutazione di merito, che è inibita in sede di legittimità».

Ciò detto, i giudici di vertice hanno affermato che la sentenza impugnata fosse conforme a legge e, quindi, hanno rigettato il ricorso.