I crediti per cui era stata richiesta l’insinuazione – di rilevantissima entità – erano relativi alla rifusione delle spese per la caratterizzazione e per gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza, di ripristino e di bonifica delle aree contaminate.
Il Giudice Delegato aveva respinto integralmente la domanda di ammissione del Ministero e ammesso al passivo solo una parte del credito dell’Autorità Portuale, ritenendo tra l’altro inammissibile la domanda sia per difetto di legittimazione passiva della società, sia in quanto, secondo il Giudice, poteva essere proposta solo in caso di omessa esecuzione delle misure di riparazione (primaria, complementare o compensativa) del danno ambientale imposte dalla Pubblica Autorità; misure che nel caso di specie o non erano state ancora disposte ovvero, ove disposte, erano in corso di esecuzione nell’ambito dei rispettivi procedimenti di bonifica attualmente in corso di svolgimento in sede di conferenza di servizi.
Il Ministero dell’Ambiente e l’Autorità Portuale hanno proposto opposizione poi respinta dal Tribunale di Livorno il quale rilevava che, in base alla legislazione vigente, come modificata da ultimo con L. 97/2013, il danno ambientale non poteva in nessun caso essere risarcito per equivalente pecuniario.
Il provvedimento è stato impugnato avanti alla Corte di Cassazione che ha accolto il ricorso limitatamente alla richiesta di ammissione al passivo del credito di rimborso delle spese già erogate per messa in sicurezza e ripristino, non avendo invece ritenuto fondato il motivo con cui era contestata l’inapplicabilità del divieto di liquidazione del danno per equivalente.
Nella decisione in commento, i giudici di legittimità hanno ripercorso gli interventi legislativi in materia ambientale a partire dal D.Lgs. 152/2006, il cui articolo 311 (rubricato in origine “Azione risarcitoria in forma specifica e per equivalente patrimoniale”) il quale aveva sancito la priorità delle misure di riparazione rispetto al risarcimento per equivalente pecuniario, quale conseguenza dell’assoluta peculiarità del danno al bene o risorsa ambiente.
Il successivo D.L. 135/2009, convertito con modifiche dalla L. 166/2009, aveva modificato la norma precisando che il danno all’ambiente doveva essere risarcito con le misure di riparazione “primaria”, “complementare” e “compensativa” previste dalla Direttiva 2004/35/CE; il risarcimento per equivalente pecuniario era quindi ammesso solo se le misure di riparazione fossero state in tutto o in parte omesse, impossibili o eccessivamente onerose o fossero state attuate in modo incompleto o difforme rispetto a quelle prescritte.
L’articolo 25 della L. 97/2013ha poi eliminato (anche dalla rubrica dell’articolo) ogni riferimento al risarcimento per equivalente patrimoniale, stabilendo che il danno all’ambiente deve essere risarcito solo con le “misure di riparazione” previste del D.Lgs. 152/2006; solo quando l’adozione delle misure di riparazione anzidette sia in tutto o in parte omessa, o comunque realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, è previsto che il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare debba determinare i costi delle attività necessarie a conseguirne la completa e corretta attuazione ed agire nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti.
Pertanto, la Suprema Corte, nel caso in esame, ha cassato la pronuncia statuendo che il giudice del rinvio doveva decidere in relazione alla domanda di risarcimento del danno ambientale “individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa e, per il caso di omessa o imperfetta loro esecuzione, determinandone il costo, da rendere oggetto di condanna nei confronti dei soggetti obbligati” (in questi termini vedi anche Cassazione 9012/2015).