Le presunzioni tributarie integrano il fumus commicti delicti
di Luigi FerrajoliLe problematiche in tema di rapporto tra processo penale e procedimento tributario sono sempre al centro di dibattito in dottrina e giurisprudenza.
La Corte di cassazione si è recentemente espressa sull’argomento con la sentenza n. 36302 depositata il 21.08.2019, relativa ad una vicenda relativa ad un sequestro preventivo irrogato in conseguenza della contestazione del reato di omessa dichiarazione di cui all’articolo 5 D.Lgs. 74/2000.
Nello specifico, il legale rappresentante di una società si era visto notificare un decreto di sequestro preventivo diretto sul profitto del reato e, in mancanza, per equivalente sui propri beni; proponeva, quindi, istanza di riesame del predetto decreto, la quale era rigettata dal Tribunale di Sassari, così la vicenda giungeva in Cassazione.
L’indagato contestava l’ordinanza di rigetto sotto due diversi profili e, in particolare, per quanto qui di interesse, eccepiva la nullità dell’ordinanza impugnata per carenza di motivazione e per errata applicazione dei criteri di valutazione indiziaria.
A tal proposito deduceva che il Tribunale, nella verifica del superamento della soglia di punibilità del reato, si era basato esclusivamente sugli accertamenti effettuati in sede fiscale, in palese violazione delle fondamentali garanzie sottese all’accertamento in sede penale.
Secondo il ricorrente, sarebbe stato violato il principio di autonomia del giudizio penale rispetto a quello tributario, poiché il Tribunale del riesame aveva utilizzato presunzioni legali tributarie, ritenendo inattendibile la ricostruzione proposta dalla società, secondo la quale l’evasione era inferiore alla soglia di punibilità, senza dar conto dei concreti elementi sui quali basava tale conclusione.
Inoltre, deduceva l’erronea applicazione dell’articolo 5 D.Lgs. 74/2000 quale conseguenza dell’indebita inversione dell’onere della prova a carico della persona sottoposta alle indagini conseguente all’applicazione delle presunzioni tributarie ai fini della determinazione dell’imponibile e, dunque, dell’imposta evasa.
La Cassazione ha ritenuto manifestamente infondati i predetti motivi di ricorso.
Nella sentenza la Suprema Corte affronta il tema della valutazione delle presunzioni tributarie in sede cautelare reale, partendo da un’interessante premessa sulla valenza del diritto penale tributario, che, pur avendo caratteristiche di specialità che derivano dalla particolare materia che ne costituisce l’oggetto, resta pur sempre diritto penale, diritto cioè dei comportamenti ritenuti lesivi di beni giuridici o di valori ad essi preesistenti e non diritto degli atti o degli interessi regolati dalle norme tributarie e certamente non dell’obbligazione tributaria.
Secondo la Cassazione, il fine perseguito dal diritto penale tributario non è il recupero del gettito fiscale evaso, né il corretto adempimento dell’obbligazione tributaria, ma esclusivamente la rieducazione dell’autore della lesione del bene giuridico protetto, che costituisce lo scopo essenziale della sanzione penale; le peculiari caratteristiche del diritto penale tributario impongono quindi una lettura “autonoma” delle norme che lo regolano, secondo i canoni interpretativi che l’inviolabilità del bene potenzialmente a rischio impongono.
I giudici, inoltre, pur confermando la tesi del ricorrente secondo cui la violazione dell’obbligo di presentare una delle dichiarazioni annuali non esaurisce l’indagine penale, essendo necessario anche l’accertamento del superamento della soglia di punibilità, indagine che il giudice penale deve compiere mediante un accertamento autonomo e diretto degli elementi costitutivi del reato secondo i canoni propri del processo penale, ricordano che, ai fini della cautela reale, è sufficiente l’oggettiva sussistenza indiziaria del reato, a prescindere da qualsiasi profilo che riguardi la colpevolezza del suo autore.
La radicale diversità del criterio di giudizio legittima, secondo la Cassazione, il ricorso alle presunzioni tributarie che avrebbero un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delicti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale.
E poiché, nel caso di specie, secondo la Cassazione, il giudice del merito aveva effettuato una valutazione della documentazione prodotta dal ricorrente, ritenendo che la stessa non fosse idonea a superare le presunzioni opposte dall’Ufficio, aveva applicato correttamente il criterio di giudizio tipico della fase cautelare reale secondo il quale “la natura polivalente dell’indizio può essere esclusa solo quando vi siano elementi tale da sterilizzare in radice la potenzialità evocativa del fatto tipica dell’indizio”.