Le sanzioni sono produttive di reddito?
di Massimiliano TasiniChe le sanzioni tributarie non siano inerenti nella determinazione del reddito di impresa è facile da dirsi ma anche da dimostrarsi.
Si è però dubitato in ordine alla deducibilità di altre sanzioni.
Scherzosamente, qualche cliente ha sostenuto, con un pizzico di malizia ma con una qualche fondatezza, che se il dipendente va più veloce può fare più cose, e dunque quella sanzione avrebbe una qualche inerenza alla attività di impresa: addirittura, una qualche correlazione con i ricavi di impresa (correlazione, quest’ultima, peraltro nemmeno richiesta dall’Agenzia delle Entrate, per pacifica prassi).
Il 7 giugno 2017 la Suprema Corte ha depositato la sentenza n. 14137 con la quale ha negato la deducibilità delle sanzioni antitrust, ritenute deducibili dal contribuente sulla scorta di (ben) quattro argomenti:
- l’indeducibilità amplificherebbe l’effetto sanzionatorio della misura, in spregio ai principi di legalità e capacità contributiva;
- il costo sarebbe inerente all’impresa, in quanto conseguente ad opzioni imprenditoriali;
- la sanzione avrebbe natura risarcitoria, o quantomeno a componente risarcitoria;
- trattasi di illecito non penale, mentre l’articolo 14, comma 4-bis, della L. 537/1993 esclude la deduzione solo per i costi dei fatti-reato.
La Corte respinge tutti e quattro gli argomenti:
- l’indeducibilità non è una sanzione addizionale, bensì “l’effetto obiettivo della natura extraimprenditoriale dell’attività illecita”;
- l’illiceità della condotta “spezza il nesso di inerenza all’attività di impresa”;
- la natura risarcitoria va esclusa, nella considerazione che la sanzione prescinde dalla diretta correlazione con un evento di danno;
- il richiamato articolo 14 riguarda “costi” e “spese” funzionali all’illecito, mentre la sanzione che ci occupa costituisce l’effetto dell’illecito.
A conclusione su questo punto, la sentenza, in modo davvero interessante, richiama la giurisprudenza comunitaria – CGE 11 giugno 2009, causa C-429/07 -, secondo la quale l’efficacia della sanzione inflitta a garanzia della concorrenza potrebbe essere sensibilmente ridotta laddove se ne ammettesse la deducibilità fiscale, atteso che il suo peso verrebbe sensibilmente ridimensionato.
Sulla materia si può richiamare, in senso conforme, la sentenza della Cassazione civ. Sez. V, 22-05-2015, n. 10590, con la quale è stato affermato che la sanzione penale o amministrativa denota la illiceità del comportamento del contribuente e tanto basta a escluderne la deducibilità. In particolare, alla sanzione antitrust, che non ha una diretta incidenza su un incremento di reddito, che potrebbe non esservi stato, deve riconoscersi una finalità afflittiva e deflattiva, in funzione di deterrente di futuri possibili analoghi comportamenti illegittimi. L’illecito spezza, in ogni caso, il nesso di inerenza, atteso che la spesa, in tal caso, non nasce più nell’impresa, ma in un atto o fatto, quello antigiuridico, che per sua natura si pone al di là della sfera aziendale.
Nello stesso senso, la CTR Toscana, Sez. XXIX, 04-03-2011, sentenza n. 23, ha ritenuto che non può essere considerata sopravvenienza passiva la sanzione pecuniaria di cui all’articolo 15 della L. 287/1990 in materia di tutela della concorrenza e del mercato (cosiddetta disciplina antitrust), irrogabile dalla Commissione UE o dall’Autorità Garante della concorrenza, poiché se si addivenisse alla condivisione di tale impostazione, con la stessa logica si dovrebbe considerare deducibile ogni sanzione e la sua natura afflittiva, divenendo ciò un riconoscimento per l’impresa che ha agito in violazione della richiamata normativa.
Tornando alla qui commentata pronuncia, è molto interessante anche l’ultima parte della motivazione, laddove la Corte censura il comportamento della società, appartenente ad un Gruppo, che ha proceduto al riaddebito pro-quota tra le partecipate della sanzione assoggettandolo ad Iva: la contestazione attiene proprio al diritto alla detrazione di tale imposta, assolta dal “cessionario/committente” in via di rivalsa. Dice la Corte: “la prestazione di che trattasi è fuori campo Iva per difetto del requisito oggettivo dell’imposta”.
Sarà forse il caso di abbandonare l’idea romantica, diffusa nella pratica, secondo la quale “nel più ci sta il meno”, e dunque tanto vale applicare sempre l’imposta.