14 Luglio 2021

Legittimo il sequestro delle somme frutto del reimpiego di un patrimonio aziendale contaminato

di Angelo Ginex
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Il sequestro preventivo nei confronti di una società può avere ad oggetto anche le somme depositate su un conto corrente che, a prescindere dall’eventuale origine formalmente lecita dovuta alla gestione dei beni aziendali, sono composte in gran parte da importi esistenti ancor prima della dichiarazione di fallimento della società, su un altro conto alla stessa intestato e successivamente trasferiti sul conto in argomento: tali somme diventano anch’esse illecite dato che il conto viene alimentato dall’impiego di beni dell’impresa inquinata in radice dai vantaggi illeciti basati su una pregressa attività delittuosa.

È questo il principio di diritto reso dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 26755 depositata ieri 13 luglio.

La fattispecie disaminata dai giudici di vertice trae origine dal provvedimento con il quale il Tribunale di Trapani disponeva il sequestro, ai fini della confisca, dell’intero capitale sociale e di tutti i beni del relativo compendio aziendale di una s.r.l. dichiarata fallita nel 2014.

La curatela procedeva a chiedere il dissequestro e la restituzione delle somme depositate sul conto corrente, ma la Corte di appello di Palermo confermava la misura cautelare, ritenendo che il denaro presente su tale conto (poiché derivante da contratti di affitto dell’azienda che la curatela aveva stipulato con un’altra società) doveva considerarsi il frutto del reimpiego dei beni della società che, realizzata con i proventi di reati fiscali, era qualificabile come impresa illecita.

Avverso tale decreto, pertanto, la curatela fallimentare della società proponeva ricorso per cassazione deducendo il vizio di illogicità, insufficienza, contraddittorietà e mancanza della motivazione.

In particolare, la ricorrente asseriva che la Corte distrettuale avesse ingiustificatamente confermato il provvedimento genetico della misura cautelare, benché fosse risultato che il conto corrente in parola era stato acceso dai curatori fallimentari. Nello specifico, le somme di denaro non costituivano il frutto di attività illecite e non potevano essere confiscate in quanto derivanti dall’attività lecita svolta dalla curatela che aveva provveduto a curare l’affitto dell’azienda dopo la dichiarazione di fallimento.

Innanzitutto, i giudici di vertice hanno ritenuto opportuno chiarire che l’articolo 20, comma 1, D.Lgs. 159/2011, nell’indicare i presupposti per l’applicazione della misura del sequestro finalizzato alla confisca di prevenzione per sproporzione, stabilisce che il vincolo può avere ad oggetto tutti i beni dei quali il proposto risulta poter disporre direttamente o indirettamente e che, «sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che siano il frutto di attività illecite o ne costituiscono il reimpiego».

Ha ricordato il Collegio che si tratta di una «formula finalizzata a contrastare il fenomeno dell’accumulazione di patrimoni illegali colpendo non solamente i beni che abbiano un rapporto di diretta derivazione dalle attività delittuose poste in essere dal proposto, ma anche quei beni che, formalmente acquisiti in maniera lecita, possano considerarsi pertinenziali al patrimonio illecito perché risultato del reimpiego di beni acquistati con l’immissione di capitali illeciti».

Come affermato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia, infatti, per un verso, l’estensione ex lege ai beni costituiti in azienda della confisca delle partecipazioni sociali totalitarie trova causa nel fatto che chi ha acquisito illecitamente, mediante i proventi della sua attività illecita o il loro reimpiego, le partecipazioni totalitarie, ha acquisito illecitamente l’azienda. Per altro verso, il sequestro può avere ad oggetto anche le somme depositate su un conto corrente che, a prescindere dall’eventuale origine formalmente lecita dovuta alla gestione dei beni aziendali, diventano anch’esse illecite, dato che il conto viene così alimentato dall’impiego di beni dell’impresa inquinata in radice dai vantaggi illeciti basati su una pregressa attività delittuosa (cfr., ex plurimis Cass. sent. 30.10.2020, n.32904; Cass. sent. 31.01.2018, n. 32688).

Nel caso di specie, secondo la Suprema Corte, la Corte di appello di Palermo ha fatto corretta applicazione dei suesposti principi laddove ha sottolineato che le somme di denaro depositate sul conto corrente bancario erano composte in gran parte da importi esistenti ancor prima della dichiarazione di fallimento della società, su un altro conto alla stessa intestato e successivamente trasferiti sul conto in argomento. La parte residua degli importi era costituita, invece, dai proventi dell’affitto del complesso alberghiero facente parte del complesso aziendale (durante la gestione della curatela fallimentare) e che doveva essere considerata frutto e derivazione diretta del reimpiego di «un patrimonio aziendale interamente contaminato, perché permeato dai profitti illeciti derivanti dalle molteplici attività delittuose».

Peraltro, la Corte ha concluso affermando che, chiarita l’erroneità dell’assunto di parte ricorrente, questi ha anche sottaciuto un aspetto della vicenda di non poco conto, e cioè che la curatela fallimentare aveva concesso in affitto il complesso alberghiero ad una società creata dal proposto stesso sicuramente allo scopo di svuotare la s.r.l. fallita e di continuare a gestire direttamente quel complesso.

Sulla base di tali argomentazioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della curatela, condannandola altresì al pagamento delle spese processuali.