L’elemento soggettivo della dichiarazione fraudolenta
di Luigi FerrajoliCon la sentenza n. 7941 depositata in data 20 febbraio 2017, la Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, si è pronunciata in ordine a un interessante caso, inerente la fattispecie delittuosa di dichiarazione fraudolenta, che riguardava l’applicazione sia della misura custodiale, sia della misura interdittiva della sospensione dell’esercizio della professione, a un commercialista indagato per una serie di reati tributari (articoli 2 e 8 D.Lgs. 74/2000) al medesimo attribuiti quale consulente fiscale di svariati imprenditori.
In sostanza, la contestazione preliminare a carico del professionista si basava sull’ipotetica commissione dei reati de quibus, da parte del medesimo, in concorso con i propri clienti e con soggetti terzi. Concretamente, la condotta si sarebbe così realizzata:
- complici dei clienti del predetto commercialista avrebbero predisposto documentazione relativa a operazioni fittizie per far conseguire ai clienti medesimi un indebito vantaggio fiscale;
- la data di pagamento dei compensi sarebbe stata differita nel tempo, per una questione di contabilizzazione delle entrate e delle uscite (principio di competenza per gli imprenditori e di cassa per i privati);
- gli imprenditori avrebbero immediatamente recuperato come perdite le somme indicate nella documentazione fittizia, i privati non sarebbero stati tenuti a indicare i corrispettivi come entrate perché non ancora riscossi e dunque non assoggettabili alla relativa esazione fiscale.
Circostanza da tenere in considerazione è che la difesa del professionista aveva eccepito che i documenti erano stati predisposti successivamente alla presentazione della dichiarazione dei redditi, per cui il fatto contestato non sarebbe sussistito (post factum non punibile).
Ai fini che interessano il presente intervento, la Corte di Cassazione, a seguito di ulteriore ricorso proposto dal professionista, ha argomentato in relazione alla struttura del reato di dichiarazione fraudolenta di cui all’articolo 2 D.Lgs. 74/2000.
Il Giudice di legittimità ha innanzitutto rilevato che “il legislatore, attraverso l’utilizzo della espressione lessicale “avvalendosi”, ha espressamente previsto che la falsità del contenuto della dichiarazione fiscale sia documentalmente sostenuta dall’avvalimento, realizzato evidentemente attraverso la indicazione nella dichiarazione dei redditi delle derivanti poste passive, di note contabili, cioè fatture od altri atti assimilabili, attestanti l’esistenza di costi deducibili in realtà insussistenti in quanto insussistenti sono le operazioni economiche risultanti dagli atti di cui sopra e dalla loro registrazione nelle scritture contabili o dalla loro conservazione da parte dell’agente a fini probatori”.
Secondo la Corte, che si tratti di falsità ideologica o materiale poco importa, così come se si versi in ipotesi di fittizietà assoluta o quantitativa, in quanto “ciò che tuttavia è necessario ai fini della realizzazione del reato è che l’agente, cioè il dichiarante, si avvalga effettivamente di tale documentazione falsa, in ciò, appunto, consistendo l’avvalimento richiesto dalla disposizione incriminatrice”.
Il delitto in questione, ragiona la Suprema Corte, si realizza con la registrazione in contabilità delle false fatture – o dalla loro conservazione ai fini di prova – e dal successivo inserimento dei corrispondenti elementi passivi fittizi nella dichiarazione di imposta, condotte congiuntamente necessarie ai fini della punibilità.
Da ciò deriva che “conseguenza ineludibile di tale principio è che, affinché il reato si realizzi è necessario che la documentazione fiscale falsa preesista, quanto meno, alla presentazione della dichiarazione fraudolentemente formata”.
Questa riflessione ha grande importanza proprio per quanto concerne il momento consumativo del reato, che viene identificato dalla Corte di Cassazione nel momento in cui viene presentata la dichiarazione fiscale contenente i dati mendaci agli Uffici tributari. Non è dunque possibile, come invece aveva ritenuto il Tribunale del Riesame, ipotizzare che la formazione della documentazione relativa a operazioni inesistenti possa essere realizzata anche successivamente alla presentazione della menzionata dichiarazione, in quanto “si assisterebbe al singolare fenomeno di un reato, già perfetto, ancorché esso sia tuttora mancante di uno degli elementi di fatto essenziali per la sua realizzazione”.
La Suprema Corte, dunque, accogliendo il ricorso, conclude evidenziando che “sotto il profilo descritto, pertanto, risulta viziata con riferimento alla violazione di legge la ordinanza del tribunale subalpino in cui, relativamente alla riconducibilità della condotta del ricorrente, sia pure limitatamente alla ravvisabilità del fumus commissi delicti, al paradigma normativo del reato di cui al D.Lgs. 74/2000, articolo 2, si legge che non inciderebbe sulla sussistenza del reato de quo il fatto che i documenti di costo sarebbero stati formati successivamente alla presentazione delle dichiarazioni dei redditi cui gli stessi si riferiscono”.