L’Erario, se lo conosci lo eviti
di Claudio CeradiniLa rubrica sulla crisi di impresa ha analizzato i rapporti con le banche, con i fornitori e con i dipendenti. Oggi l’analisi prosegue verificando quali siano gli strumenti a disposizione del fisco, in caso di omessi versamenti conseguenti il dissesto finanziario.
La questione è nota, ne abbiamo parlato più di una volta qui su ECNews ed anche più diffusamente nel corso del master su “Crisi e Risanamento”. Il contribuente debitore d’imposta in crisi finanziaria, che non abbia nella propria disponibilità la provvista necessaria al versamento di Iva o ritenute, rendendosi impossibile di conseguenza il relativo versamento, commette un delitto se alla scadenza del termine previsto dagli artt. 10-bis e 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000 non provvede al pagamento?
La questione è tanto importante quanto la tentazione è forte. E’ del tutto evidente che l’Amministrazione finanziaria reagisce all’inadempimento in tempi colossalmente più lenti del fornitore, che invece il giorno dopo blocca le spedizioni. L’istinto di sopravvivenza dell’imprenditore, ferito, ma senza sapere quanto gravemente, è quello di assicurarsi le forniture, e per il resto si vedrà. Un occhio di riguardo va riservato alle banche, non tanto per le ragioni sintetizzate quindici giorni fa, quanto perché normalmente dotate di un’arma, la fideiussione, che basta ed avanza come deterrente. Allo Stato, invece, la fideiussione non è stata data e, quindi, che aspetti. Ma lo Stato è lo Stato, lui la fideiussione non la chiede, se la prende a prescindere. Lo ha fatto anni fa, quando l’art. 1, co. 143, L. n. 244/2007, la Finanziaria 2008, ha esteso senza operare alcun distinguo l’applicabilità ai reati tributari del famigerato istituto della confisca per equivalente di cui all’art. 322-ter c.p., con il connesso sequestro preventivo dei beni personali ex art. 321 c.p.c.. È una fideiussione pesante, l’unica nella storia del diritto priva di effetto solutorio. Duplice la stortura, e doppia la gravità dell’errore, rispetto a quella finanziaria. Il comportamento del debitore appare con certa chiarezza carente di dolo, nel momento in cui non solo dichiara il proprio debito in dichiarazione, ma ipoteticamente propone in un piano, che sia o meno concorsuale, il pagamento integrale, sanzioni ed interessi inclusi. Eppure allo Stato non basta, il debitore deve anche subire la confisca dei beni, e quindi in potenza pagare per il proprio debito due volte più sanzioni, e subire una condanna. Nell’insieme il quadro assomiglia molto alla prigione per debiti di Marshalsea di Dickensiana memoria.
Al danno poi si aggiunge la beffa, anche se non fa ridere, perché l’imprenditore in crisi, che ne percepisca la gravità e la necessità del ricorso ad uno strumento concorsuale, rischia di trovarsi nella poco augurabile condizione di dover scegliere che delitto commettere, ma non in quella di non commetterne. Se decide di pagare Iva e ritenute, cercando di sfuggire ai delitti di cui agli artt. 10-bis o 10-ter, D.Lgs. n. 74/2000, compie un atto che potenzialmente configura bancarotta preferenziale, ex art. 216 L.F., co. 3, specie se, come accade spesso, i fondi non sono disponibili nella misura sufficiente a saldare integralmente tutti i creditori muniti di titolo di prelazione superiore all’Erario, che sono molti, quasi tutti. Se decide di fare l’opposto, e cioè di rispettare rigorosamente la par condicio creditorum, non può versare le imposte, evita la bancarotta ma ricade del delitto di omesso versamento, con tutte le sue conseguenze. E la giurispridenza non aiuta, del tutto ondivaga ed in costante conflitto tra legittimità e merito.
Sarebbe il caso di comprendere, e non ci pare difficile, che i delitti disciplinati dagli articoli 10-bis e 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000 si differenziano dagli altri in quanto privi dell’elemento psicologico. Non è irrilevante distinguere il caso in cui l’omesso versamento derivi da comportamento intenzionale del debitore rispetto a quello diverso in cui sia invece necessitato. Abbiamo già ricordato altrove, ma vogliamo ribadirlo ancora, che nel marzo del 2014 è stata depositata la proposta di legge n. 2235, (ad oggi, e chissà per quanto, giacente presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati). L’art. 3 prevede l’introduzione del comma 1-bis agli articoli 10-bis e 10-ter del D.Lgs. N. 74/2000, del seguente tenore: “se entro sei mesi dalla scadenza di cui al comma uno il contribuente è dichiarato fallito o ammesso a una procedura concorsuale prevista dagli articoli 160 e ss. del decreto 16 marzo 1942 n. 267 e successive modificazioni, ovvero se dimostra di versare in uno stato di oggettiva e incolpevole difficoltà finanziaria, la condotta del soggetto agente deve essere connotata dal dolo specifico di evadere le imposte“. Il senso è quello di evitare che il semplice comportamento omissivo costituisca fattispecie penalmente rilevante, e che debba invece essere in caso di difficoltà finanziaria, giudizialmente accertata o meno, provato l’elemento psicologico della volontà di evadere. Le occasioni per riparare a questa intollerabile situazione esistono. Qualcosa ha già fatto la Legge di Stabilità (L. n. 190/2014), che all’art. 1, co. 637, lett. b) è intervenuta sul ravvedimento operoso (art. 13 del D.Lgs. 472/1997), ampliandone i termini di utilizzo, sia temporali che anche operativi, estendendoli al caso prima precluso di attività accertative in corso. Ci si potrà ravvedere quindi anche quando i delitti di omesso versamento fossero già stati commessi, e in uno slancio di ottimismo vogliamo credere che troverà applicazione la nuova formulazione dell’art. 13 del D.Lgs n. 74/2000, delineata dal Decreto sulla Certezza del Diritto, in cui il pagamento estingue il delitto.
Altro, e molto di più, può fare proprio il decreto sulla Certezza del Diritto. Dobbiamo peraltro rilevare che il testo sino ad oggi circolato delude. Le modifiche agli artt. 10-bis e 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000 appaiono del tutto inadeguate. Da un lato si alza la soglia, e dall’altro si amplia il perimetro, con il probabile risultato che si dia più spazio a comportamenti semplicemente inadempienti, indipendentemente dalla ragione che li originano, e che si aumentino, invece che diminuire, i problemi del contribuente onesto, ma in crisi. Sarebbe invece apprezzabile, per non dire necessario ed irrinunciabile, un intervento diverso, che distinguesse le fattispecie intenzionale da quella necessitata ed incolpevole.
In sintesi, è estremamente importante consigliare per il meglio l’imprenditore che si illuda di trovare comoda finanza nell’omissione dei versamenti di Iva e ritenute, contando sulle ridotte sanzioni del ravvedimento e sui blandi riflessi dello Stato. Se il gioco scappa di mano, e succede nove volte su dieci, le conseguenze possono essere drammatiche, per il danno che contribuente e relativo rappresentante legale ne possono patire, senza addentrarsi qui nei colossali problemi che questo tipo di indebitamento porta con se, quando si provi a confezionare un piano concordatario ed un’offerta ai creditori ai sensi dell’art. 161 LF.
Lo Stato la fideiussione ce l’ha, e la usa.