L’esterovestizione societaria ha rilevanza penale?
di Marco BargagliNel panorama tributario internazionale, sulla base del noto principio della tassazione su base mondiale (c.d. “worldwide principle”), l’esatta individuazione della residenza fiscale del soggetto passivo riveste fondamentale importanza.
Una volta riqualificata la residenza sul territorio dello Stato, in ipotesi di esterovestizione societaria, il soggetto di diritto estero sarà fiscalmente residente in Italia e, quindi, dovrà presentare la dichiarazione per i redditi ovunque prodotti nel mondo.
Ai sensi dell’articolo 73, comma 3, del D.P.R. 917/1986 una società di capitali è considerata fiscalmente residente in Italia, quando per la maggior parte del periodo d’imposta ha mantenuto la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato.
I criteri di collegamento con il territorio dello Stato sono fra loro alternativi, essendo sufficiente che si realizzi uno solo di essi perché la società, l’ente, compresi i trust, vengano sottoposti a tassazione in Italia.
La questione della rilevanza penale dell’esterovestizione, costituisce un tema ampiamente dibattuto tra gli addetti ai lavori.
Sullo specifico tema, la normativa sostanziale di riferimento è contenuta nell’articolo 5 del D.Lgs. 74/2000 rubricato “omessa dichiarazione” dopo le modifiche introdotte, con decorrenza dal 22 ottobre 2015, dal D.Lgs. 158/2015.
In merito, per espressa disposizione di Legge, viene punito con la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni chiunque al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro cinquantamila.
Con riferimento alle ipotesi di dichiarazione tardiva, non si considera omessa la dichiarazione presentata entro novanta giorni dalla scadenza del termine o non sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto.
Ciò posto, la suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 43809 del 30 ottobre 2015, ha sancito l’irrilevanza penale dell’esterovestizione.
In merito, sia il Tribunale che la Corte di appello di Milano hanno fatto ricorso al Commentario all’articolo 4 del Modello OCSE di Convenzione, secondo il quale la sede di direzione effettiva dell’impresa deve essere individuata:
- nel luogo dove vengono assunte le decisioni chiave, di natura gestionale e commerciale, necessarie per la conduzione della attività di impresa;
- nel luogo dove la persona o il gruppo di persone che esercitano le funzioni di maggior rilievo assumono ufficialmente le loro decisioni;
- nel luogo di determinazione delle strategie che dovranno essere adottate dall’ente nel suo insieme.
La valutazione di tali elementi deve essere sempre condotta in un’ottica di prevalenza della sostanza sulla forma, come peraltro prevede lo stesso Commentarlo OCSE.
Ai fini penali – tributari, sulla base dell’interpretazione fornita da parte della terza sezione penale della Corte di Cassazione, identificare “tout court” la sede amministrativa della società controllata con il luogo nel quale si assumono le decisioni strategiche o dal quale partono gli impulsi decisionali può in questi casi comportare conseguenze aberranti ove esso dovesse identificarsi con la sede della società controllante, in evidente contrasto con le ragioni stesse della politica del gruppo e le esigenze sottese al suo controllo.
Secondo il giudice di legittimità, tale approccio si pone addirittura in contrasto con la presunzione di eterodirezione della società controllata e, in particolare, con quanto espressamente prevede l’articolo 2497-sexies del codice civile secondo il quale si presume, salvo prova contraria, che l’attività di direzione e coordinamento di una società sia esercitata dalla società o ente tenuto al consolidamento dei loro bilanci o che comunque le controlla ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile.
Sulla base di un solco interpretativo ormai costante, gli ermellini evidenziano che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa, non costituisce di per se un abuso della libertà di stabilimento, non ravvisandosi la “presunzione di una frode fiscale”.
In senso conforme, si è espressa anche la Commissione Tributaria Provinciale di Roma, nella sentenza n. 1694/41/2014, con la quale è stato precisato che l’esterovestizione può essere contestata solo in presenza di costruzioni artificiose.
A parere di chi scrive, la libertà di stabilimento in ambito comunitario costituisce un principio cardine dell’ordinamento giuridico e, conseguentemente, in linea con l’approccio ermeneutico espresso dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, le ipotesi di esterovestizione societaria dovranno riguardare solo le “strutture societarie artificiose”, in linea con gli indicatori diramati dall’Agenzia delle entrate con la circolare n. 51/E del 6 ottobre 2010.
Di contro, l’applicazione delle norme antiabuso contenute nella normativa domestica e nelle correlate disposizioni convenzionali, si renderanno pienamente applicabili nei confronti dei soggetti economici che non svolgono alcuna reale attività economica, ma sono stati costituiti all’estero senza valide ragioni economiche, al solo scopo di ottenere un indebito vantaggio fiscale nel Paese o nel territorio di insediamento.
Di conseguenza, in tale ultima ipotesi, dovranno essere valutati i profili penali tributari derivanti dall’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi ex articolo 5 del D.Lgs. 74/2000, ove venga individuato l’elemento soggettivo sotto forma di dolo specifico, ossia il fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto.