5 Marzo 2014

Lettere di intento e frodi Iva

di Giovanni Valcarenghi
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La vigente normativa IVA prevede la possibilità, per i soggetti che possono qualificarsi come esportatori abituali, di acquistare beni e servizi senza addebito di IVA, dietro il vincolo che al fornitore sia inviata (prima del momento di effettuazione della operazione) apposita dichiarazione di intento.

In linea di principio, il ricevente tale documento deve solo rispettare alcuni vincoli formali per non avere problemi con il fisco. In sostanza:

  • si protocolla la lettera di intento ricevuta,
  • la si annota su apposito libro
  • e si provvede all’invio telematico dell’apposita comunicazione all’Agenzia delle entrate entro il giorno 16 del mese successivo a quello del ricevimento, oppure entro il giorno 16 del mese successivo a quello nel quale si è effettuata la prima fornitura non imponibile connessa alla medesima lettera di intento.

Una volta ricevuta la dichiarazione di controparte, peraltro, la fornitura “deve” avvenire in non imponibilità, salvo che non si riceva apposita dichiarazione di revoca che deve essere solo annotata sull’apposito registro ma non comunicata all’Agenzia delle entrate.

L’ultima cautela formale che va rispettata è quella che attiene la tipologia di bene o servizio ceduto o prestato; infatti, al fine di evitare l’aggiramento delle limitazioni alla detrazione e/o di beneficiare di una detassazione su beni che non sono evidentemente connessi con le esportazioni, la fornitura in sospensione di imposta non può avvenire per:

  • acquisto diretto, mediante contratto di appalto o in leasing di fabbricati e aree edificabili (è invece utilizzabile per i canoni di locazione);
  • beni e servizi per i quali l’imposta risulta indetraibile, anche per effetto del pro rata, come precisato dalla circolare 145/E del 10 giugno 1998.

Fatta questa rapida ricostruzione, sembrerebbe che la posizione del soggetto fornitore di un esportatore abituale risulti ammantata, esclusivamente, di una serie di verifiche ed adempimenti formali che prescindono, in tutto e per tutto, dalla verifica della esistenza, in capo alla controparte, della qualifica di esportatore abituale.

A fronte di tale affermazione che è certamente aderente al tenore letterale della norma, dobbiamo tuttavia esplorare il tema della buona fede del soggetto fornitore, argomento che continua ad assumere (nella dimensione interna ed in quella comunitaria) una importanza sempre maggiore ai fini della possibilità di subire contestazioni da parte della amministrazione finanziaria.

Infatti, risultano alcune sentenze della Cassazione (si vedano la n.20834 del 2005 e la n.6458 del 2010) dalle quali si evince uno scenario parzialmente difforme da quello meramente formalistico evocato dalla norma.

Quindi, se il fornitore è a conoscenza della “falsità” della dichiarazione di intento, nel senso che è consapevole che il proprio cliente è privo dei requisiti per essere considerato esportatore abituale, oppure, peggio ancora, si trova in una situazione di consapevolezza dell’intento della controparte di porre in essere una frode carosello (acquistare beni non assoggettai ad IVA con la finalità di reimmetterli in consumo senza versare il tributo connesso) risponde anch’egli dell’imposta non esposta sulla fattura, che, invece, avrebbe dovuto essere applicata, ovviamente con aggiunta di sanzioni ed interessi.

Non sempre appare semplice definire quando si è a conoscenza delle patologie dei propri clienti, ma in alcune situazioni potrebbe non essere così difficile; si pensi, ad esempio, al soggetto che svolge una attività che poco o nulla ha a che vedere con l’estero, oppure al caso di soggetto neo costituito, che non può avere maturato il plafond (salvo il caso particolare di “eredità” dello stesso per effetto di operazioni di affitto di azienda o simili).

In questo periodo di inizio anno di elevata frequenza di lettere di intento, dunque, aggiungiamo un ulteriore controllo “complicato” a quelli che già siamo abituati a fare, onde evitare di soggiacere a pesanti sanzioni.