L’evasione dell’Irap non rileva sul piano penale
di Alessandro CarlesimoLa Suprema Corte, in più interventi, ha contribuito a far chiarezza sul campo di applicazione della disciplina penal tributaria soffermandosi sul concetto di imposta elaborato dal Legislatore nel D.Lgs. 74/2000.
Le pronunce succedutesi nel tempo poggiano sul tenore letterale delle norme contenute nel decreto, le quali, richiamando espressamente le violazioni concernenti “le imposte sul reddito e sul valore aggiunto”, rifuggono da interpretazioni estensive che conferiscono rilevanza penale all’evasione di tributi non assimilabili ai predetti.
La questione affiora in quei processi penali in cui il contribuente viene giudicato responsabile per fattispecie che concernono (in tutto o in parte) somme riconducibili all’Irap, sull’assunto che tale imposta possa essere ricompresa tra quelle incidenti sul reddito.
Se si muove dalla considerazione che l’Irap ha natura reale, l’equiparazione con le imposte sul reddito appare evidentemente discutibile in quanto il relativo prelievo fiscale non presenta alcun collegamento con le capacità reddituali del soggetto passivo. Il presupposto impositivo è invero rappresentato dall’esercizio di attività autonomamente organizzata diretta allo scambio di beni o alla prestazione di servizi, anziché dalla produzione di un reddito.
Perfino l’Amministrazione finanziaria, nella circolare del Ministero delle Finanze n. 154/2000, sembra fugare i dubbi sull’estraneità del tributo rispetto alla categoria delle imposte sul reddito chiarendo che “le dichiarazioni costituenti l’oggetto materiale del reato sono solamente le dichiarazioni dei redditi e le dichiarazioni annuali Iva; di conseguenza, sono ad esempio escluse dalla fattispecie criminosa le dichiarazioni prodotte ai fini dell’Irap”.
Ciò nonostante, in sede penale, viene frequentemente attribuita rilevanza all’Irap con tutte le implicazioni che ne discendono, sia in merito alla verifica del superamento delle soglie penali prefissate dalla legge (per le fattispecie non qualificabili “reato di pericolo”) sia in ordine all’individuazione del parametro di riferimento cui commisurare l’entità patrimoniale espropriabile per equivalente in base agli istituti della confisca o (anteriormente alla condanna) del sequestro preventivo; strumenti il cui ricorso presuppone la comparazione tra il valore della res prelevabile in capo all’autore del delitto ed il profitto del reato identificato nel vantaggio economico derivante dal risparmio di imposta ottenuto.
La Corte di Cassazione è di recente tornata ad affrontare questa tematica nella sentenza n. 39678/2018, avente ad oggetto una complessa vicenda che vedeva imputati un gruppo di imprenditori che, avvalendosi di una società esterovestita opportunamente interposta in un’operazione di trasferimento di quote sociali, sottraevano ad imposizione componenti positivi tassabili in Italia. Secondo l’impianto accusatorio tale condotta integrava il reato di omessa dichiarazione ex articolo 5 D.Lgs 74/2000.
L’accertamento di tali circostanze di fatto, in principio, induceva la Corte Territoriale ad attribuire valenza penale anche all’occultamento di materia imponibile Irap.
Gli Ermellini, a contrariis, hanno ritenuto fondate le motivazioni addotte dai ricorrenti, i quali invocavano a propria difesa una riconsiderazione del tributo regionale ai fini della configurabilità del delitto.
Nella sentenza in commento viene precisato in modo inequivoco che “…le uniche due imposte, la cui evasione può essere definita, in ossequio del principio di legalità, come penalmente rilevante, sono dunque le imposte sui redditi e l’imposta sul valore aggiunto, con la conseguenza che fuoriescono dall’ambito oggettivo delle fattispecie le imposte non sussumibili nelle predette categorie o diverse da quelle tipizzate (ad esempio, l’imposta di registro o l’Irap), in quanto non ricomprese nel perimetro disegnato dalle norme penali tributarie…”.
Pertanto i Giudici, condividendo le censure relative al corretto inquadramento dell’imposta, hanno annullato la sentenza impugnata nella parte in cui attribuiva rilevanza penale all’evasione dell’Irap ed altresì ordinato la rideterminazione del profitto del reato utilizzato come parametro di riferimento per il calcolo dei beni da assoggettare a confisca. Su questa falsa riga è conseguito lo scomputo dell’Irap evasa dal valore delle disponibilità vincolabili.
Lo scorporo della quota Irap dal valore limite aggredibile in seno alla sfera patrimoniale del reo, ad un attento esame, risulta essere in piena sintonia con il consolidato orientamento giurisprudenziale, fermo nel riconoscere la tesi secondo cui “nel sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, ai fini della quantificazione del profitto del reato è irrilevante l’evasione dell’imposta regionale sulle attività produttive (Irap), che non è un imposta sui redditi in senso tecnico” (cfr. Cass., n. 12810/2016) e, pertanto, “gli importi concernenti l’Irap non possono concorrere a determinare il profitto del reato” (Cass., n. 4906/2015).
Si osserva inoltre che in passato è stata esclusa la rilevanza penale dell’imposta regionale anche con riferimento ad altre ipotesi di reato e, più in dettaglio, sia con riferimento alle fattispecie connotate da accentuata attitudine a frodare il Fisco, quali quelle connesse all’emissione e all’utilizzo di fatture false ex articolo 2 D.Lgs n. 74/2000 (cfr. Cass., n. 37855/2017; Cass., n. 11147/2011), sia con riferimento a quelle figure criminose giudicate meno offensive per gli interessi erariali, quali il reato di dichiarazione infedele regolato all’articolo 4 D.Lgs 74/2000 (cfr. Cass., n. 4906/2015).
Alla luce di tali pronunce si può concludere che la portata applicativa della disciplina penale in ambito tributario risulta circoscritta alle sole condotte finalizzate all’evasione delle imposte dirette sul reddito e dell’Iva, senza possibilità di estendere il trattamento penale a quei tributi privi di alcuna correlazione con il dato reddituale.