L’impugnabilità del diniego di autotutela: una possibile rimessione in termini per il ricorso?
di Silvio RivettiL’atto impositivo diventa definitivo se non viene impugnato, innanzi alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado, con ricorso da notificarsi entro il termine di 60 giorni dalla notificazione dell’atto stesso, ai sensi dell’articolo 21, D.Lgs. 546/1992 (termine eventualmente prolungabile in caso di sospensione feriale dei termini processuale, o in caso di accertamento con adesione). Tuttavia, anche per gli atti divenuti definitivi, il nuovo articolo 10-quater, comma 1, L. 212/2000 (Statuto del contribuente), come delineato dal D.Lgs. 219/2023, dispone l’obbligo di annullamento da parte dell’ufficio in sede di autotutela obbligatoria, se detti atti risultano manifestamente illegittimi, perché rientranti nelle casistiche elencate alle lettere da a) a g) del comma 1 stesso: errore di persona; errore di calcolo; errore d’individuazione del tributo; errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall’Amministrazione finanziaria; errore sul presupposto d’imposta; mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente eseguiti; mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini decadenziali eventualmente previsti.
Il comma 2, dell’articolo 10-quater, L. 212/2000, precisa, poi, che tale obbligo di annullamento, esperibile anche d’ufficio, non sussiste più una volta decorso il termine di un anno dall’intervenuta definitività dell’atto illegittimo, non impugnato: con previsione che allinea, per la prima volta, l’esercizio dell’autotutela tributaria a quello dell’autotutela amministrativa, da esperirsi, appunto, nel termine di un anno, a norma dell’articolo 21-novies, L. 241/1990.
Prendendo, dunque, a riferimento l’arco temporale annuale di cui si è detto, si noti quanto segue.
Tra le casistiche di obbligatorio annullamento totale o parziale dell’atto impositivo, l’articolo 10-quater, comma 1, lettera e), L. 212/2000, prevede, come già l’articolo 2, comma 1, lettera c), D.M. 37/1997, l’errore sul “presupposto d’imposta”.
Ora, per definizione scolastica e condivisa, il “presupposto d’imposta” s’individua nel fatto economico, o fattispecie imponibile, al cui verificarsi scaturiscono obblighi tributari, formali e sostanziali. Per esempio, nel caso delle imposte dirette, il “presupposto d’imposta” coinciderà con il “possesso di redditi”, in denaro o in natura.
Se questo è vero, si noti allora che, nel caso delle imposte dirette di cui sopra, la scorretta determinazione nel merito del quantum dei maggiori imponibili e, dunque, dei maggiori redditi in capo al contribuente, all’esito dell’attività impositiva dell’ufficio, equivale proprio ad un errore sul “presupposto d’imposta”. Per l’articolo 53, Costituzione, infatti, non è dato pagare tributi in relazione ad una capacità contributiva inesistente, ossia ricostruita in maniera erronea, in termini di “possesso di redditi” in misura eccedente la realtà.
Alla luce di quanto sopra, appare ipotizzabile che il contribuente, che per avventura avesse omesso d’impugnare atti impositivi richiamanti a tassazione per esempio redditi esenti o già tassati, possa, in primo luogo, legittimamente richiederne all’ufficio l’eliminazione totale o parziale in sede di autotutela obbligatoria, sulla scorta della commissione di un palese errore sul presupposto d’imposta, quale errore impattante sul cuore stesso del “se” e del “quanto” dell’imposizione; per poi, in secondo luogo, impugnare l’eventuale provvedimento di diniego di autotutela dell’ufficio, tanto in versione di diniego espresso, quanto in versione di diniego tacito, come oggi espressamente consentito dall’articolo 19, comma 1, lettera g-bis), D.Lgs. 546/1992, modificato dal D.Lgs. 220/2023, se tale diniego interviene nel termine dell’anno dalla definitività dell’atto: ricadendosi, così, nel perimetro di configurabilità dell’autotutela obbligatoria, quale procedimento secondario che presenterà il medesimo oggetto del procedimento principale, ossia il “merito” della pretesa.
Vista l’identità di argomento dei due procedimenti, ne deriva allora che, anche il ricorso contro il diniego di autotutela non potrà che riguardare il “merito” della tassazione: con vera e propria riapertura dei termini a favore del contribuente, che non aveva impugnato l’atto a suo tempo. Invero, si noti che il legislatore della Riforma ha, oggi, incluso il diniego di autotutela obbligatoria tra gli atti autonomamente impugnabili “per vizi propri”, ai sensi dell’articolo 19, D.Lgs. 546/1992: e, dunque, anche per vizi “di merito” quanto al “presupposto d’imposta”, come nel caso di specie; dovendosi dire superata quella lettura restrittiva dei motivi d’impugnabilità del diniego di autotutela tributaria, come delineata dalla giurisprudenza della Cassazione secondo l’impostazione previgente, che negava al ricorrente la contestabilità di vizi del diniego e richiedeva la prospettazione di interessi di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto (Cassazione n. 24033/2019).
In conclusione, pare sostenibile che il vizio di “errore sul presupposto d’imposta”, qui in esame, presenti la stessa natura del vizio “di merito”, da cui deriva l’annullabilità dell’atto, ai sensi dell’articolo 7-bis, L. 212/2000 (Statuto del contribuente): perché esprime, solo in misura più intensa, ovvero “manifesta”, quella stessa illegittimità e infondatezza dell’atto che configura il vizio di violazione di legge, da farsi valere necessariamente con motivo di ricorso, ai sensi dello stesso articolo 7-bis, L. 212/2000. Tale argomento di ricorso sembra, dunque, esperibile avverso il diniego di autotutela obbligatoria, che neghi la rimozione della detta violazione: parendo pienamente corretto rimettere al giudice la valutazione della sussistenza della “manifesta illegittimità” dell’imposizione, che ne giustifica l’eliminazione.