Per l’Agenzia delle entrate, quindi, un credito riassume una dualità di connotazioni fiscali a seconda che verta in regime d’impresa o che partecipi di un compendio patrimoniale privato. In tal caso, non potendo contare il Fisco sulle tutele dell’articolo 88, comma 4-bis, Tuir, vale quanto già rappresentato nella remota circolare n. 73/1994, ossia l’istituto dell’incasso giuridico. Prima di esaminare la liceità fiscale che a fronte di un’identica dinamica di effetti giuridici (la rinuncia di un credito) e di un’unica prescrizione di legge (l’articolo 88, comma 4-bis, Tuir) in vigore per eliminare il distorsivo squilibrio impositivo in questione, raccordata a meccanismi fiscali del tutto diversi da quelli intravedibili nell’incasso giuridico, appare utile ripercorrere l’ermeneutica prospettata dal giudice di Cassazione sull’istituto.
In particolare la Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 12223/2022, ricongiunge il fondamento causale del c.d. incasso giuridico al fatto che la rinuncia al credito da parte del socio, origina la presupposizione che esso sia affluito alla sfera giuridica del rinunciante (e non, quindi, nel suo compendio patrimoniale), il quale nell’ambito della sua autonomia decide di rimettere il corrispondente debito della società. Così testualmente il Giudice di Cassazione: “La rinuncia presuppone il conseguimento (non, quindi, la riscossione) del credito il cui importo, anche se non materialmente incassato, viene, comunque utilizzato, tramite la rinuncia, in favore della società”.
Appare rilevante sottolineare come la Corte di cassazione sia costretta a ricorrere al termine “conseguimento del credito”, in quanto costituendo civilisticamente la remissione del credito unicamente un atto abdicativo unilaterale, che diverge in toto dall’estinzione satisfattoria dell’obbligazione sottostante, essa si rivela del tutto mancante di affinità verso una qualsiasi configurazione giuridica di incasso. Appare, cioè, chiaro al Giudice di legittimità l’impossibilità di usare sintagmi coniugabili, sul piano del diritto, con l’effetto satisfattivo dell’obbligazione, per cui devia verso locuzioni (conseguimento e utilizzo di un credito) più inclini ad identificare generiche forme di possesso del credito, su cui il creditore è ammesso a incentrare atti di dominio (la rinuncia all’incasso del credito) a scopo di rinforzo patrimoniale della società partecipata.
Il Giudice di legittimità sostituisce l’effettività dell’incasso con una generica condizione potestativa sul credito. Tale generica condizione potestativa sul credito, anche se può conciliarsi con una nozione dinamica di possesso del reddito, non contrariata dal principio costituzionale della capacità contributiva, non è però ricongiungibile al principio di cassa legislativamente messo alla base del presupposto di governo dei redditi di capitale, di lavoro e diversi come contrassegnati dal Tuir.
Anche se il possesso di redditi costituisce “la generica espressione” con la quale il Legislatore ha sinteticamente indicato, includendolo nella definizione del presupposto d’imposta sia dell’Irpef (articolo 1, Tuir) che dell’Ires (articolo 72, Tuir), il criterio di collegamento del reddito alla persona (fisica o giuridica), nell’ambito delle singole categorie di redditi lo ha poi coordinato con situazioni giuridiche inclini ad incapsulare talora il principio di cassa e talora il principio della competenza. Solo in alcuni specifici casi risulta unicamente rilevante la titolarità giuridica e quindi il possesso della fonte (tale è ad esempio il caso dei redditi fondiari).
Solo nei citati articoli 1 e 72, Tuir, l’espressione “possesso del reddito” trova nella titolarità di situazioni giuridiche soggettive la sua fondamentale prerogativa. Per tali preliminari articoli non è il possesso materiale della ricchezza alla base dell’individuazione del centro soggettivo, ma il dominio giuridico che il centro soggettivo è nella condizione di esercitare sul reddito, avendone la titolarità della fonte. Se è indubbiamente vero che la fonte produttiva del reddito esiste se manca il condizionamento prevaricante di facoltà decisionali di terzi sul reddito, essa tuttavia non basta per la compiuta delineazione strutturale dell’obbligazione tributaria in ordine a quelle categorie di reddito per le quali il legislatore procede ad un loro più dettagliato coordinamento, con prescrizioni che, nell’ambito della costituzionale riserva di legge, raccordano a più precise regole giuridiche la rilevanza fiscale del fatto economico.
Il principio della capacità contributiva indica nel possesso del reddito la portata causale dell’obbligazione tributaria, per cui senza un evento economico sintomatico di ricchezza, nulla è tassabile, ma la configurazione dell’obbligo impositivo in ordine alle sue dinamiche attuative è rimessa al legislatore, in ossequio al citato principio della riserva di legge (articolo 23, Costituzione).
I redditi di capitale (nei quali si annoverano i dividendi dell’istanza in esame) si coordinano rigorosamente con il principio di cassa (articolo 45, Tuir) e per tale principio “percezione” e “conseguimento” non sono equivalenti. L’effettivo flusso dell’incasso non è un mero “elemento accidentale” secondo i canoni del contratto, ma diretto elemento costitutivo dell’obbligo impositivo, che, quindi, non insorge senza la sua sopravvenienza. Trascurarlo e ritenere sufficiente la preliminare generica portata del “possesso del reddito” significa connettere l’interpretazione ad un’opera creativa dell’obbligazione tributaria e non ad un’opera di rappresentazione dell’obbligo impositivo fondato su coerenti congiunzioni di sistema. Significa invadere l’area normativa esclusivamente riservata al legislatore. In termini più espliciti si interpreta contra Costituzione.
Nel caso di rinuncia di un credito insorto a seguito della delibera di distribuzione del dividendo, indipendentemente dalla sua condizione fiscale (privata o d’impresa), il fatto economico che si rende intravedibile è solo il rinforzo patrimoniale della società, per cui o è tassabile la portata di tale evento o si è nell’irrilevanza degli effetti fiscali. Per il codice civile la categoria civilistica della remissione riesce a configurarsi solo come un atto abdicativo del tutto estraneo a qualsiasi forma satisfattoria dell’obbligazione sottostante, del tutto dissociata, quindi, da qualsiasi manifestazione di incasso, sia materiale che giuridico. I redditi di capitale, al pari degli altri redditi che si ricongiungono al principio di cassa, danno manifesta prova di non specializzarsi rispetto alle relative categorie civilistiche, alle cui prerogative subordinano gli effetti fiscali. Nel momento in cui, quindi, l’interprete si scosta dall’istituto giuridico e dalla sua predefinita vocazione di scopo, manipolandolo per conseguire degli effetti fiscali che non gli sono connaturati, al fine di perseguire la tutela erariale, compie un’opera ermeneutica del tutto ricalcante l’abuso del diritto. La strumentalizzazione della regola giuridica sia che essa s’indirizzi a creare un’aspettativa erariale non prevista dalla legge o ad evitare che l’erario patisca un pregiudizio per l’ammanco di un diritto che la legge prevede, viene in ogni caso a vertere in una condizione di antigiuridicità.
Del tutto astratta è anche la logica giuridica rinvenibile nell’ulteriore asserzione della Corte sempre rinvenibile nella citata sentenza 12223/2022: “… per un altro verso la rinuncia arricchisce la società che appartiene al socio rinunciante, il quale altrimenti si gioverebbe, attraverso lo schermo della personalità giuridica, in violazione del principio della capacità contributiva, dell’incremento dell’effettivo valore della partecipazione sociale”.
A tal proposito, sul piano dei concreti effetti economici evocati dal giudice di Cassazione, non appare esatto raccordare la remissione del credito ad un rinforzo patrimoniale della società solo connesso con la partecipazione del socio rinunciante. Dalla rimozione della passività dallo stato passivo e dal derivato aumento del netto patrimoniale della società, ne trae vantaggio l’intera compagine sociale e non solo il socio rinunciante. Nella società a responsabilità limitata, ad esempio (ma simili criteri di riparto valgono anche per le altre forme ordinamentali di società), la titolarità dell’intero valore patrimoniale della società è frazionata in dipendenza delle prescrizioni dell’articolo 2468, cod. civ., per il quale testualmente (3° comma): “Se l’atto costitutivo non prevede diversamente, le partecipazioni dei soci sono determinate in misura proporzionale ai conferimenti (costitutivi)”. È, quindi, l’intera collettività dei soci ad avvantaggiarsi dell’aumento patrimoniale procurato dalla remissione del credito del singolo socio e non solo quest’ultimo. Il socio remittente potrebbe persino essere un socio di minoranza del tutto marginale e beneficiarne, quindi, nella medesima misura marginale, a fronte dell’unitario sovraccarico degli effetti fiscali dell’“incasso giuridico” da lui subito sull’intera remissione del debito. Dal regolamento societario/statutario derivano, quindi, regole del tutto inconciliabili persino con i rappresentati paradigmi tributari di “possesso del reddito”, nell’accezione di generiche forme di nuova ricchezza sottoposte al dominio dispositivo del socio, tanta è la sproporzione che può venirsi a rivelare tra l’entità del credito rimesso e l’influenza della rimessione nei confronti del socio che rinuncia al credito da TFM, da prestazioni di lavoro autonomo, dipendente e da redditi diversi e di capitale.
Conclusivamente, l’incasso giuridico è solo una finzione fondata sulla manifesta manipolazione dell’istituto giuridico della rinuncia e sull’effettiva delineazione strutturale dell’obbligazione tributaria che deriva dai redditi legislativamente ricongiunti al principio di cassa.
Rappresentata l’anomala struttura giuridica e tributaria dell’incasso giuridico, tornando ora alle questioni poste in premessa, si tratta anche di accertare, sempre sul piano degli stretti principi di diritto, se tale stereotipo di finzione giuridica possa ritenersi, al di là della sua arbitraria dinamica, sopravvissuto alla novella introdotta con il comma 4-bis dell’articolo 88, Tuir, o se la sua ultrattività abbia incontrato in esso un’invalicabile ostruzione. Per una più agevole comprensione si riporta il testo del citato comma 4-bis: “La rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale”. Dalla riportata versione testuale si ritrae, in primis, come i crediti dalla cui rinuncia deriva la sopravvenienza attiva, non hanno alcun raccordo legislativo in ordine alla loro fonte di provenienza (d’impresa o privata), per cui la diversa connotazione fiscale che l’Agenzia delle entrate ritiene di intravedere nella fonte di origine del credito relativamente al valore fiscale (sprovvisto di ogni significato fiscale il credito in regime d’impresa non tassato – con valore fiscale in ogni caso perequato al suo valore nominale in caso di credito in regime privato) non dispone di alcuna copertura legislativa. E neppure alcun sussidio legislativo proviene dal riportato testo di legge, in ordine alla rilevanza della sopravvenienza attiva solo se raccordata alla rinuncia dei crediti in regime d’impresa. Il dato letterale appare, invece, di significato onnicomprensivo, non dipendente da specifici fondamenti causali e di origine, per cui sul piano testuale la norma appare avere una vocazione disciplinare non circoscrivibile alla catalogazione, privata o d’impresa, del credito. Appare, inoltre, del tutto anomalo che un credito diverga il suo valore fiscale in dipendenza della fonte di provenienza, privata o d’impresa. Perché si possa fiscalmente connotare un credito in modo diverso sul piano del relativo valore fiscale, occorre un parametro distintivo di chiaro rango legislativo e trattandosi di specificazione fiscale esso non può che venire previsto nella legislazione tributaria, non trattandosi di una prerogativa civilistica idonea a contrassegnare in qualche modo la struttura ordinamentale del credito. Ma proprio l’indistinto plenario rinvio alla rinuncia dei crediti dei soci a cui il Legislatore ha fatto ricorso nel comma 4-bis dell’articolo 88, Tuir, è sintomatico della mancanza di una qualsiasi contrassegnazione divisoria in ordine alla natura e all’origine dei crediti. In altri termini, trattasi solo di una distinzione prospettata in atti di prassi. Uno spartiacque divisorio identificato dall’Agenzia delle entrate che però incide ed in modo diretto sulla delineazione strutturale dell’obbligazione tributaria (basti pensare al diverso meccanismo impositivo sottostante come indicato dall’interprete ministeriale), partecipando, quindi, alla configurazione della prestazione patrimoniale, ma tale ingerenza implica l’osservanza del costituzionale principio della riserva di legge (articolo 23, Costituzione) non perseguibile, come noto, con atti amministrativi.
Inoltre, si deve anche considerare che se il cd incasso giuridico costituisse un lineare istituto praticabile con generalità in ordine ad ogni tipo di credito, in quanto anche sostitutivo-inclusivo del principio di cassa, non vi sarebbe stato bisogno di ricorrere allo strumento della sopravvenienza attiva nei confronti della società, indebolendo con l’imposizione della medesima lo stesso scopo del rinforzo patrimoniale della partecipata, dal momento che la sua commisurazione finale patisce la decurtazione fiscale della sopravvenienza. Anzi, se l’incasso giuridico disponesse di un’autentica credibilità giuridico-fiscale, coerente con le varie categorie di reddito, l’adozione legislativa di tale strumento sarebbe risultata sicuramente più razionale sul piano degli effetti fiscali, dal momento che l’unitario credito rinunciato a cui si raccorda un altrettanto unitario scopo (il potenziamento patrimoniale dei mezzi propri della società), con l’introduzione della sopravvenienza viene distinto, a parità di prerogative e di scopo si ripete, in apporto fiscalmente neutro ed in sopravvenienza tassabile nei confronti della società. Un apporto di chiara unitaria natura patrimoniale viene a declinare conseguenze impositive diverse nei confronti della società, in dipendenza di un fattore (il valore fiscale del credito) del tutto estraneo alla commisurazione della sua capacità contributiva, avendo per quest’ultima la medesima natura degli apporti costitutivi.
Si deve, quindi, ritenere che l’introduzione del comma 4-bis dell’articolo 88, Tuir, si sia resa necessaria, non per una sostituzione solo parziale dello strumento dell’incasso giuridico, come intenta l’Agenzia delle entrate, ma per coprire un vuoto d’imposta, seppure con una soluzione impositiva (la sopravvenienza attiva) altrettanto contorta, anche se meno distorsiva dei principi di diritto lesi dall’inesistente incasso giuridico.