L’inquadramento del Modello di Organizzazione e di Gestione: ulteriori aspetti generali
di Andrea OnoriIl Modello 231/2001 (più comunemente chiamato anche MOG, Modello di Organizzazione e Gestione) con la sua funzione di “baricentro” dell’azienda risponde ad una esigenza di tutela legale dell’attività aziendale (per un maggior approfondimento si vedano i precedenti contributi).
Affinché tale tutela sia effettiva, ovvero che l’ente non risponda dei reati commessi dai soggetti apicali, si deve poter provare che:
- la Direzione aziendale ovvero l’Organo amministrativo (la norma parla di “organo dirigente”) abbia adottato ed attuato efficacemente il Modello 231 prima della commissione del fatto;
- sia stato nominato un Organismo di Vigilanza (OdV), dotato di autonomi poteri di controllo, al quale sia stato affidato il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza del Modello adottato;
- la vigilanza da parte dell’OdV non sia stata omessa oppure insufficiente;
- le persone che hanno commesso il reato presupposto lo abbiano commesso eludendo il Modello 231.
L’aspetto che più rileva, pertanto, è l’efficace attuazione del Modello.
In primis, per poter affermarne l’efficacia, il MOG deve essere soggetto ad una verifica periodica e dovrà essere aggiornato, o meglio “modificato”, nel caso in cui:
- siano riscontrate (“scoperte”) significative violazioni delle prescrizioni e/o;
- intervengano cambiamenti nell’organizzazione e/o;
- vi siano cambiamenti nell’attività dell’ente.
In secundis, l’efficacia del Modello di Organizzazione e di Gestione dipende anche dalla presenza di un “sistema disciplinare” atto a sanzionare “il mancato rispetto delle misure indicate”.
Da tutto quanto sopra si può affermare che “Societas delinquere … potest!”.
Solo la commissione di particolari e specifiche tipologie di reato, crea la fattispecie giuridica affinché una società possa, eventualmente, essere ritenuta responsabile di un illecito amministrativo.
Tali reati, dettagliati e precisamente elencati dalla norma stessa, devono, di fatto, essere commessi dai soggetti apicali della società (amministratori, direttori generali dotati di ampi poteri gestori), nell’interesse o a vantaggio della stessa.
Ma quando si può dire che un reato, definito come “presupposto” della responsabilità amministrativa, viene commesso nell’interesse o a vantaggio dell’Ente?
Una risposta compiuta alla domanda l’ha offerta la Corte di Cassazione (Sentenza n. 39615/2022), pronunciandosi in merito ad un ricorso proposto da un Ente condannato per l’illecito amministrativo di cui all’articolo 25 septies, D.Lgs. 231/2001, rubricato “Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela”.
Partendo dall’assunto che l’”interesse” e il “vantaggio” sono i due parametri di imputazione oggettiva di cui all’articolo 5, D.Lgs. 231/2001, in giurisprudenza si è affermata la teoria che questi sono due criteri diversi ed alternativi.
La Sentenza evidenzia come i termini di “interesse” e “vantaggio” riguardano “concetti giuridicamente diversi, potendosi distinguere un interesse “a monte” per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell’illecito, da un vantaggio obbiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato ex ante, sicché l’interesse ed il vantaggio sono in concorso reale. Come si vede, i due criteri vengono tenuti nettamente distinti, vale a dire operanti su piani diversi, uno (l’interesse) su quello soggettivo e l’altro (il vantaggio) su quello oggettivo”.
La Sentenza continua specificando che“l’interesse è il criterio soggettivo (indagabile ex ante) consistente nella prospettazione finalistica, da parte del reo persona fisica, di arrecare un interesse all’ente mediante il compimento del reato, a nulla valendo che poi tale interesse sia stato concretamente raggiunto o meno”, mentre “il vantaggio, al contrario, è il criterio oggettivo (da valutare ex post), consistente nell’effettivo godimento, da parte dell’ente, di un vantaggio concreto dovuto alla commissione del reato”.
Viene poi ulteriormente evidenziato come tale impostazione giuridica sia stata “abbracciata” dalle Sezioni Unite (Sentenza n. 38343/2014) stabilendo che “in tema di responsabilità da reato degli enti, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell’art. 5 del D.Lgs. 231 del 2001 all”‘interesse o al vantaggio”, sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito”.
Altro aspetto di rilievo, contenuto nella Sentenza in commento, è che “la responsabilità degli enti può dunque essere definita come una vera e propria responsabilità da colpa di organizzazione, caratterizzata dal malfunzionamento della struttura organizzativa dell’ente, la quale dovrebbe essere volta – mediante adeguati modelli – a prevenire la commissione di reati”.
Sempre nel contesto della richiamata Sentenza n. 38343/2014, le Sezioni Unite hanno infatti affermato che “la colpa di organizzazione è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli”.