L’integrativa non scrimina la dichiarazione infedele
di Angelo GinexIn tema di reati tributari, la presentazione di una dichiarazione integrativa ha effetti solo in sede amministrativa, non escludendo la responsabilità penale del contribuente per il delitto di dichiarazione infedele, in quanto reato istantaneo. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 23810 del 29.05.2019.
La vicenda trae origine dalla presentazione di una dichiarazione dei redditi da parte di un soggetto, in cui era riportato un reddito imponibile esiguo, cui seguiva la presentazione in termini di una dichiarazione integrativa, con la quale veniva emendato quanto erroneamente indicato nella prima dichiarazione.
Il dichiarante veniva, tuttavia, indagato e condannato a un anno e otto mesi di reclusione, pena sospesa, per il delitto di dichiarazione infedele, di cui all’articolo 4 D.Lgs. 74/2000, e detta statuizione era altresì confermata in sede di appello.
Egli, dunque, si induceva a proporre ricorso per cassazione per erronea applicazione del combinato disposto degli articoli 4 D.Lgs. 74/2000, 2, comma 8, D.P.R. 322/1998 e degli articoli 42, 47 e 62-bis c.p., nonché per difetto di motivazione della pronuncia.
Nella specie, con articolato motivo di impugnazione, il ricorrente deduceva che, avendo le fattispecie tributarie come fulcro la presentazione di una dichiarazione, la presentazione di un’eventuale dichiarazione integrativa ad emendamento di eventuali errori o omissioni commessi in quella originaria non può essere considerata un post fatto privo di effetti, essendo parte integrante della condotta.
Pertanto, l’articolo 4 D.Lgs. 74/2000, quando si riferisce alle “dichiarazioni”, aggancerebbe la sanzione penale alla condotta della presentazione della dichiarazione, che può consistere in una pluralità di atti da valutarsi nel loro complesso ed all’interno dell’arco temporale intercorrente tra il momento della presentazione della prima dichiarazione a quello oltre il quale essa non è più integrabile.
Inoltre, il ricorrente contestava l’erronea interpretazione dell’articolo 4 citato, in relazione al dolo specifico, in quanto non era presente alcun intento evasivo, atteso che sarebbe stato costretto a rendere una dichiarazione infedele a causa di problemi societari interni che non avevano consentito di approvare il bilancio e di conoscere i dati da dichiarare.
Da ultimo, il ricorrente adduceva che, in ogni caso, avrebbe dovuto trovare applicazione l’articolo 47 c.p., in tema di errore sulla norma extrapenale, in quanto, attesa la difficoltà e l’oscurità di interpretazione delle norme tributarie, il professionista che lo seguiva avrebbe erroneamente creduto che le dichiarazioni integrative, agendo sulla dichiarazione principale, avessero effetto sanante dell’illecito penale e lasciassero in atto le sole sanzioni amministrative.
I supremi Giudici, ritenendo infondato il ricorso del reo e dando continuità all’orientamento prevalente in sede di legittimità, hanno chiarito che, a differenza delle fattispecie di cui agli articoli 2 e 3 D.Lgs. 74/2000 richiamate dall’articolo 4, la struttura della condotta da esso punita fa unicamente riferimento alla presentazione della dichiarazione annuale.
Non rilevano, dunque, le dichiarazioni integrative successivamente presentate.
Ulteriore conferma della loro irrilevanza proviene dalla natura istantanea del reato de quo, dacché ne deriva che il dies a quo al fine del calcolo del termine di prescrizione del reato decorre dalla data di presentazione della prima dichiarazione (cfr. Cass., n. 27967/2017; Cass., n. 40618/2013).
Per quanto attiene, poi, il profilo del dolo specifico, esso deve essere valutato al momento della consumazione del reato, ossia al momento della presentazione della dichiarazione originaria, e consiste nell’evadere le imposte a fronte della dichiarazione di un reddito di fantasia, che occulta il reale imponibile, sottraendolo a tassazione, a nulla rilevando circostanze esterne quali le addotte vicende societarie.
Quanto, infine, all’applicabilità dell’articolo 47 c.p. al caso de quo, i giudici hanno osservato che la mancata conoscenza, da parte di un professionista, della norma tributaria posta alla base della violazione penale contestata, costituisce errore sul precetto che non esclude il dolo ex articolo 5 c.p., salvo che sussista un’obiettiva situazione di incertezza sulla portata applicativa o sul contenuto della norma fiscale extra-penale, tale da far ritenere l’ignoranza inevitabile (cfr. Cass., n. 44293/2017).
Detta circostanza, tuttavia, non ricorre quando l’errore cade sia sulla norma extra-penale integratrice del precetto penale, sia sulla norma tributaria, rendendo, dunque, inoperante l’articolo 47 c.p.
Pertanto, per quest’ordine di ragioni, il ricorso del reo è stato rigettato e la pena è stata resa definitiva.