20 Settembre 2017

L’invito al pagamento è atto impugnabile autonomamente

di Luigi Ferrajoli
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In tema di accertamento tributario, l’invito al pagamento, nonostante non figuri nell’elenco di cui all’articolo 19 del D.Lgs. 546/1992, costituisce atto impugnabile, in ossequio all’interpretazione estensiva della richiamata norma, affermata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che hanno confermato l’opponibilità dinanzi al giudice tributario di tutti gli atti adottati dall’ente impositore che portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità che gli stessi siano espressi in forma autoritativa.

È questo il principio di diritto affermato dalla CTR del Lazio, Sezione XV, nella sentenza n. 4073 depositata in data 6 luglio 2017.

Nel caso oggetto della sentenza il contribuente impugnava l’invito al pagamento con il quale veniva richiesto il versamento del contributo unificato non pagato in relazione a un ricorso giurisdizionale presentato avanti il giudice tributario. La CTR di Roma ha sancito che l’invito al pagamento deve ritenersi ricorribile avanti il giudice tributario in conformità all’interpretazione estensiva del citato articolo 19 affermata dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 19704/2015.

Sull’argomento è opportuno ricordare che la medesima Corte di Cassazione ha più volte affermato (sentenze n. 16293/2007 e n. 3773/2014) che, ai fini dell’accesso alla giurisdizione tributaria, devono essere qualificati come avvisi di accertamento o di liquidazione del tributo tutti quegli atti con cui l’Amministrazione finanziaria comunica al contribuente una pretesa tributaria ormai definita, ancorché tale comunicazione si concluda non con una formale intimazione al pagamento sorretta dalla prospettazione in termini brevi dell’attività esecutiva, bensì con un invito bonario a versare quanto dovuto. Secondo la Corte di Cassazione, ciò che appare essenziale affinché si possa parlare di avviso di accertamento o di liquidazione è che il contenuto dell’atto manifesti una pretesa tributaria compiuta e non condizionata anche se accompagnata dalla sollecitazione a pagare spontaneamente per evitare spese ulteriori o anche per essere ammesso a qualche beneficio.

Nella conclusione cui giunge la sentenza della CTR di Roma in esame, deve, pertanto, essere ravvisata una conferma dell’evoluzione giurisprudenziale in chiave di interpretazione estensiva dell’articolo 19 del D.Lgs. 546/1992, ove tale tipo di lettura veniva avviata da due indicazioni delle Sezioni Unite civili: una (sentenza n. 16776/2005), intesa a rimarcare come gli interventi adottati dal legislatore con la L. 448/2001 dovessero intendersi come una modifica al sistema chiuso dell’articolo 19, comma 1, del D.Lgs. 546/1992, e l’altra (sentenza n. 20318/2006), indirizzata a precisare che la (precedente) teoria della stretta tipicità degli atti impugnabili, costruita sulla base di certe caratteristiche di questi ultimi, dovesse essere adeguata al nuovo assetto della giurisdizione tributaria, in riferimento alla varietà dei nuovi tributi ed all’evoluzione dei diritti del contribuente, sempre però nell’alveo di rapporti concreti.

Più in particolare, la sentenza n. 16776/2005 sottolineava come l’articolo 12, comma 2, della L. 448/2001 stabilisse l’appartenenza alla giurisdizione tributaria di “tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie” (o relative alle “sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari” e “agli interessi ed ogni altro accessorio”), con il conseguente accesso al contenzioso tributario, attraverso l’articolo 19 citato, “ogni qual volta l’Amministrazione manifesti (anche attraverso la procedura del silenzio-rigetto) la convinzione che il rapporto tributario (o relativo a sanzioni tributarie) debba essere regolato in termini che il contribuente ritenga di contestare (in assenza di simile manifestazione di volontà espressa o tacita non sussisterebbe l’interesse del ricorrente ad agire in giudizio ex art. 100  c.p.c)”.

Va ricordato che, mentre l’allargamento, implicito, degli atti impugnabili ex articolo 19 del D.Lgs 546/1992 ha spesso chiamato le Commissioni tributarie a pronunciarsi nell’ambito di una casistica estremamente eterogenea (si pensi, ad esempio, all’impugnabilità dell’interpello disapplicativo di una norma antielusiva), il giudice di legittimità ha ulteriormente confermato letture estensive della citata norma. Ancora di recente, infatti, le Sezioni Unite civili (citata sentenza n. 3773/2014) hanno statuito la necessità, per il creditore, di adire il giudice tributario competente per interporre l’azione di accertamento, ex articolo 548 c.p.c., dell’obbligo dell’Ufficio impositore che, chiamato a ricoprire la qualità di terzo pignorato, dovesse rendere una dichiarazione negativa intorno ai debiti della stessa (nel caso di specie un credito d’imposta), vantabili dal debitore esecutato.

Temi e questioni del contenzioso tributario 2.0 con Luigi Ferrajoli