Lo studio associato bisticcia con l’Irap
di Giovanni Valcarenghi
Si è ormai chiuso anche l’anno 2013 e si stanno riscaldando i motori in preparazione delle dichiarazioni dei redditi; ciò nonostante, rimane del tutto inalterata la situazione nebulosa che attiene alla soggettività passiva IRAP, materia nella quale sembra sfumata anche la possibilità di un intervento volto a delineare (in modo netto e preciso) i contorni della autonoma organizzazione, visto che la Legge di stabilità 2014 ha cancellato l’apposito fondo che era originariamente destinato alla copertura di tale intervento.
Comunque sia, una vicenda certamente di non facile soluzione è quella che attiene la posizione degli studi associati, in relazione ai quali, per la verifica della soggettività passiva IRAP, sussistono due tipologie di problemi:
- da un lato la indagine in merito alla esistenza di lavoro stabile altrui, oltre che all’utilizzo di una dotazione di beni strumentali che eccede il minimo indispensabile per lo svolgimento dell’attività;
- dall’altro, l’indagine in merito al tipo di legame esistente tra gli associati, vale a dire una semplice condivisione dei costi, oppure un vero e proprio interscambio di professionalità.
La questione è stata oggetto di un recente pronunciamento della Cassazione (sentenza 1575 del 27 gennaio 2014), in merito alla soggettività passiva IRAP di uno studio associato che si occupava della amministrazione di condomini.
Le indicazioni desumibili dal testo sono a dire il vero scarne, ma ciò che pare maggiormente significativo è il seguente stralcio della motivazione: l’esercizio in forma associata di una professione liberale è circostanza di per sé idonea a far presumere l’esistenza di una autonoma organizzazione di strutture e mezzi, ancorché non di particolare onere economico, nonché dell’intento di avvalersi della reciproca collaborazione e competenze, ovvero della sostituibilità nell’espletamento di talune incombenze, si da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di ciascun componente dello studio.
Tale indicazione, peraltro ripresa da precedenti pronunce della stessa Cassazione (sentenze n. 24058/2009, 17136/2008 e 13570/2007), sancisce un principio che gli operatori faranno bene a memorizzare, vale a dire l’esistenza di una sorta di presunzione di autonoma organizzazione in stretta connessione con l’esercizio in forma associata della professione.
Infatti, prosegue la sentenza, legittimamente il reddito dello studio associato viene assoggettato all’imposta regionale sulle attività produttive, a meno che il contribuente non dimostri che tale reddito è derivato dal solo lavoro professionale dei singoli associati.
Questo è il parere della giurisprudenza, di cui occorre tenere conto quando si presentino istanze di rimborso del tributo; diversamente, bisogna domandarsi quali valutazioni siano esperibili ove ci si trovi in una fase antecedente del presunto rapporto tributario, vale a dire in sede di compilazione della dichiarazione. Ove lo studio decida di non compilare il modello e l’Agenzia intenda censurare tale posizione, l’assunto di cui sopra trova ancora applicazione, oppure no? Probabilmente, dovrà essere l’Agenzia ad assumersi l’onere di provare l’esistenza di tale autonoma organizzazione, anche se temiamo che si potrà fare “improprio abuso” del riferimento a tali indizi giurisprudenziali.
Che sia l’uno (contribuente) o l’altro (Agenzia) soggetto a dover fornire la prova, non si delinea un compito semplice. Come si dimostra che i professionisti sono tra loro “impermeabili” oppure in perfetta osmosi? E’ bene porsi questo quesito anche alla luce del fatto che l’assunzione degli incarichi avviene sempre a livello personale, come potrebbe desumersi dai mandati professionali, e non è poi così semplice dimostrare (nell’uno o nell’altro senso) che vi sia una effettiva collaborazione, una azione comune sulle pratiche, oppure no.
Dal punto di vista meramente formale (e non certo da quello sostanziale) rimane però una certezza: se due colleghi decidono di lavorare nei medesimi locali con due partite IVA autonome, semplicemente dividendo i costi, hanno meno probabilità di pagare l’IRAP rispetto al caso in cui decidano di creare una associazione professionale. Se poi, volendo “esagerare”, pensano di costituire una STP, allora sono davvero fregati.
Dovranno riflettere sulla questione anche coloro che, avendo versato gli acconti IRAP nel 2013, intendono utilizzarli in compensazione (considerandoli integralmente non dovuti) poiché decidono di non assoggettarsi all’IRAP nel prossimo modello UNICO.