L’imprenditore imputato per
omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, per una somma inferiore alla
soglia di
punibilità prevista, per il periodo sino al 17 settembre 2011, nell’importo di euro 103.291,38, deve essere assolto con formula piena perché
il fatto non sussiste alla luce di quanto statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 80 dell’8/4/2014.
L’articolo 10-ter D.Lgs. 74/2000, che disciplina il reato di omesso versamento dell’IVA, introdotto dal D.L. 223/2006, prevede che “La disposizione di cui all’art. 10 bis [omesso versamento di ritenute certificate] si applica, nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo”.
La soglia di punibilità, al superamento della quale scatta la sanzione penale, per l’omesso versamento dell’IVA è pertanto stata individuata, per mezzo del richiamo all’articolo 10-bis D.Lgs. 74/2000, nell’importo di euro 50.000.
Dottrina e giurisprudenza avevano sin da subito evidenziato la disparità di trattamento sanzionatorio tra l’ipotesi di omesso versamento, la quale presuppone che il contribuente presenti regolare dichiarazione e, successivamente, ometta di versare l’imposta dovuta (per esempio a causa di una grave carenza di liquidità) e le ipotesi di dichiarazione infedele ed omessa dichiarazione, previste rispettivamente dagli articoli 4 e 5 D.Lgs. 74/2000.
Per tali ultime fattispecie di reato, che presuppongono comportamenti del contribuente particolarmente gravi quali appunto non presentare alcuna dichiarazione o dichiarare importi non veritieri, era infatti prevista una soglia di punibilità superiore a quella prevista per l’ipotesi meno lesiva, ossia euro 103.291,38 per la dichiarazione infedele ed euro 77.468,53 per l’omessa dichiarazione.
Il legislatore era intervenuto per sanare la disparità sanzionatoria con il D.L. 138/2011, riducendo le predette soglie di punibilità per il reato di cui all’articolo 4 ad euro 50.000 e per il reato di cui all’articolo 5 ad euro 30.000.
Tuttavia le nuove soglie si applicano ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della norma, mentre per il pregresso continuano ad applicarsi i vecchi importi con conseguente permanere della disparità sanzionatoria.
Sul punto sono intervenuti il Tribunale di Bologna ed il Tribunale di Bergamo, sollevando questione di legittimità costituzionale dell’articolo 10
ter
D.Lgs. 74/2000
con riferimento
all’articolo 3 della Costituzione, nella parte in cui prevede,
per i fatti commessi sino al 17 settembre 2011,
una soglia di punibilità inferiore non solo a quella
prevista
per il reato di omessa dichiarazione dall’articolo 5, ma anche a quella stabilita per il reato di dichiarazione infedele di cui all’articolo 4 del medesimo D.Lgs. 74/2000, prima delle modifiche introdotte dal D.L. 138/2011.
La Consulta, con la sentenza 80/2014 depositata l’8/4/2014, ha statuito che “L’art. 10-ter, D.Lgs. n. 74 del 2000 è costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad euro 103.291,38”.
Nella recentissima sentenza n. 36859 del 4/9/2014 la Corte di Cassazione ha correttamente applicato tale principio in una vicenda che vedeva quale protagonista un imprenditore, condannato in primo ed in secondo grado per avere omesso di versare l’IVA dovuta per il periodo di imposta 2006 per l’importo di euro 53.962,00 e, per il periodo di imposta 2007, per l’importo di euro 52.297,00.
I Giudici di legittimità hanno assolto l’imputato per insussistenza del fatto, specificando che tale formula era da preferirsi a quella “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato” in quanto quest’ultima deve essere adottata là dove il fatto non corrisponda ad una fattispecie incriminatrice in ragione o di un’assenza di previsione normativa, o di una successiva abrogazione della norma, o di un’intervenuta dichiarazione d’incostituzionalità, integrale e non parziale, come nel caso di specie; la formula “perché il fatto non sussiste“, va invece adottata quando difetti un elemento costitutivo del reato, come nel caso in esame (ossia il superamento della soglia di punibilità).
Tale interessante distinzione non è un mero esercizio di stile ma comporta importanti effetti pratici per l’imputato: solo l’utilizzo della formula di assoluzione piena “perché il fatto non sussiste” esclude ogni possibile rilevanza della vicenda anche in sede diversa da quella penale, mentre in caso contrario permane la possibile rilevanza del fatto in sede civile.