3 Ottobre 2017

L’onere della prova nelle frodi carosello

di Luigi Ferrajoli
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In tema di frodi carosello costituisce un principio di diritto consolidato, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, quello secondo cui “è possibile negare ad un soggetto passivo il beneficio del diritto a detrazione solamente qualora si dimostri, alla luce di elementi oggettivi, che detto soggetto passivo, al quale sono stati ceduti o forniti i beni o i servizi posti a fondamento del diritto a detrazione, sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’IVA commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuto a monte o a valle nella catena di tali cessioni o prestazioni”.

La Corte di Cassazione ha da tempo aderito a tale interpretazione, cui ha dato recentemente applicazione con la sentenza n. 10120 del 21.04.2017, che ha riesaminato la ripartizione l’onere della prova tra Ufficio e contribuente in caso di contestazione di una frode carosello.

La vicenda decisa dalla Suprema Corte integra una fattispecie “classica”: il titolare di un autosalone per la vendita di autovetture si era visto notificare un avviso di accertamento con cui l’Ufficio aveva accertato l’indebita deduzione di costi e di detrazione IVA per operazioni inesistenti.

Secondo la ricostruzione dell’Ufficio, si era trattato di un’operazione fittizia di compravendita di auto: una prima società acquistava autoveicoli da un secondo soggetto e poi li rivendeva ad altri clienti, tra cui il contribuente accertato; le prime due società, peraltro, operavano solo come cartiere, ossia quali soggetti meramente interposti per la sola emissione di fatture, senza poi versare l’IVA riscossa.

L’impugnazione dell’atto impositivo aveva buon esito in primo grado, ma la sentenza veniva poi riformata in appello, pertanto il contribuente proponeva ricorso per cassazione.

In primo luogo il ricorrente censurava la sentenza di secondo grado per carenza di motivazione in ordine all’asserita mancata partecipazione del contribuente alla frode carosello; la Corte di Cassazione ha però respinto tale contestazione sostenendo che la doglianza ineriva ad un profilo non decisivo “poichè non ha rilievo, ai fini della configurabilità della frode carosello, la partecipazione all’operazione frodatoria da parte di colui che occupa la posizione terminale delle operazioni illecite ma solo se egli era, o meno, in buona fede, ossia se sapeva, o poteva sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza che il soggetto formalmente cedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o partecipato a una frode”.

Inoltre il contribuente denunciava la violazione e falsa applicazione dell’articolo 19 del D.P.R. 633/1972, degli articoli 167, 168, lett. a), 178, lett. a), 220, punto 1, 226 e 273 della direttiva 2006/112/CE relativa al sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto.

La Suprema Corte ha respinto anche tale motivo ribadendo che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, incombe all’Amministrazione tributaria provare, sia pure anche solo in base a presunzioni, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale sospetto ed a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente.

La Cassazione ha inoltre precisato che il concreto definirsi del contenuto di tale onere è rapportato alla effettiva complessità della vicenda: nei casi di operazione soggettivamente inesistente di tipo triangolare – ossia l’ipotesi più semplice e comune – caratterizzata dalla interposizione di un soggetto italiano, fittizio, nell’acquisto di beni tra un soggetto comunitario (reale cedente) ed un altro soggetto italiano (reale acquirente), la giurisprudenza della medesima Corte di legittimità aveva già avuto modo di evidenziare che tale onere “può esaurirsi nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione della prestazione fatturata (è, cioè, una cartiera), costituendo ciò, di per sè, elemento idoneamente sintomatico della mancanza di buona fede del cessionario, poichè l’immediatezza dei rapporti tra i soggetti coinvolti nella frode induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente in merito all’avvenuto versamento dell’IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa nè assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta” (Cass. n. 24426 del 2013).

Una volta raggiunta questa prova, spetterà al contribuente fornire la prova contraria, ossia di aver svolto le trattative in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente.

La Corte di Cassazione ha quindi respinto il ricorso, rilevando che nella vicenda in commento la CTR aveva ritenuto provata la frode carosello sulla base del fatto che il contribuente non aveva fornito validi elementi probatori a sostegno del proprio incolpevole affidamento, con motivazione ineccepibile.

 

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