Investita della questione, la Suprema Corte ha analizzato la portata di tale norma (ora abrogata dal D.L. n.203/05, convertito in L. n.248/05), avente ad oggetto i poteri istruttori integrativi delle commissioni tributarie.
Poiché, in tema di distribuzione dell’onere della prova, anche nel processo tributario vale la regola generale dettata dall’art. 2697 cod. civ. e che, pertanto, in applicazione della stessa, “l’amministrazione finanziaria che vanti un credito nei confronti del contribuente, è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa” (ex multis Cass. n. 1946/2012, n. 13665/2001 e n. 2990/1979), i giudici di legittimità hanno osservato come i poteri istruttori conferititi al giudice tributario ai sensi del richiamato art. 7 soggiacciono ad una serie di limiti operativi.
Innanzitutto, tale norma, che attribuiva al giudice il potere di disporre l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova, deve essere interpretata alla luce del principio di terzietà sancito dall’art. 111 della Costituzione, che non consente al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, ma gli attribuisce solamente un potere istruttorio in funzione integrativa, e non integralmente sostitutiva, degli elementi di giudizio (Cass. n. 673/07). In secondo luogo, i poteri anzidetti non sono arbitrari ed il loro effettivo – o mancato – esercizio doveva essere adeguatamente motivato (cit. Cass. n. 673/07).
Poiché, nel caso di specie, l’Agenzia aveva notificato un avviso al contribuente richiamando espressamente elementi di indagine ricavati dagli accertamenti operati dalla G.d.F. e il medesimo aveva conseguentemente mosso delle contestazioni sulla correttezza della verifica operata e sull’attendibilità dei relativi esiti, è evidente che l’onere di dimostrare la legittimità della pretesa fiscale ricadesse proprio in capo all’Amministrazione finanziaria, non potendo di certo prescindere dalla produzione del PVC.
La Corte ha poi sottolineato la differenza tra “adeguatezza della motivazione” dell’atto impositivo e “prova dei fatti” posti a fondamento dello stesso, sottolineando come “l’esistenza di una adeguata motivazione del primo non implica anche la prova dei fatti sui quali essa si regge”, essendo “diverse ed entrambe essenziali le funzioni che l’una (motivazione dell’atto) e l’altra (prova dei fatti che ne sono posti a fondamento) sono dirette ad assolvere”.
Mentre, infatti, la motivazione degli atti dell’Amministrazione finanziaria di cui all’ art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212/00) è finalizzata a rendere edotto il contribuente sull’an e sul quantum della pretesa tributaria, consentendogli così di approntare sulla stessa un’idonea difesa (“sicché il corrispondente obbligo deve ritenersi assolto con l’enunciazione dei presupposti adottati e delle relative risultanze”), la prova “attiene invece al diverso piano del fondamento sostanziale della pretesa tributaria ed al suo accertamento in giudizio in presenza di specifiche contestazioni dello stesso”.
Nel caso di specie, in mancanza del PVC più volte richiamato dall’avviso di accertamento e indicato come indispensabile nella sentenza di primo grado, non si poteva certamente ritenere raggiunta la prova dei fatti costitutivi.
Pertanto, non potendo la sola motivazione dell’avviso di accertamento – senza prova dei fatti affermati – valere a superare le contestazioni mosse dal contribuente aventi ad oggetto proprio l’esistenza e l’idoneità di quei fatti atti a giustificare il ragionamento effettuato dall’Amministrazione finanziaria, la Corte ha accolto il ricorso del contribuente e cassato la sentenza impugnata.