L’utilizzo del marchio in agricoltura
di Alberto RocchiLuigi ScappiniL’imprenditore agricolo, in ragione della sua multidisciplinarità, ma soprattutto dell’evoluzione del mercato che ormai, anche per quanto riguarda l’agroalimentare, deve essere letto in chiave globale, approccia a strumenti, un tempo quasi esclusiva dell’imprenditore commerciale, con l’obiettivo primario di tutelarsi nei confronti dei soggetti terzi.
Tale è, ad esempio, il marchio che, assolve alla duplice funzione di tutela dell’azienda e dei suoi prodotti e di strumento per le politiche di marketing.
Infatti, è indubbio che il possedere un marchio ben distinto permette di ridurre i tempi di ricerca da parte del buyer: basta pensare ai vini, il cui gradimento da parte del consumatore è legato non tanto (e non solo) alle caratteristiche organolettiche, quanto piuttosto al nome assegnato dal produttore.
In termini più tecnici, il marchio può consistere in “tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, la combinazione o le tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese” (articolo 7, c.p.i.).
Attraverso la registrazione di un marchio, si ottiene, ai sensi dell’articolo 20, c.p.i., il diritto di farne un uso esclusivo e, di riflesso, inibire a soggetti terzi:
- l’utilizzo di un segno identico per prodotti identici o similari e
- l’utilizzo di un segno identico o similare per prodotti anche differenti quando il marchio ha una rilevanza elevata.
Nel comparto agricolo, è di tutta evidenza come l’utilizzo di un marchio registrato, utilizzando la facoltà concessa dal comma 3, dell’articolo 2135 cod. civ., rende possibile la commercializzazione di prodotti propri valorizzandone determinate caratteristiche: in questo modo, l’imprenditore potrà proporre al mercato, ad esempio, non un generico vino rosso sfuso od olio extravergine, ma un bene “marchiato” che lo rende distinguibile rispetto agli altri.
Qualche riflessione va dedicata alle eventuali implicazioni fiscali delle varie modalità di utilizzo del marchio. La particolarità del settore agricolo, imperniato sui redditi fondiari, pone alcuni dubbi sul trattamento dei redditi che eventualmente possano derivare dall’impiego del marchio in azienda, analogamente a quanto avviene nel settore commerciale.
In altri termini, occorre stabilire se e in che misura questo tipo di reddito trova copertura nel reddito agrario, che si ricorda viene definito dell’articolo 32, Tuir, come la “parte del reddito medio ordinario dei terreni imputabile al capitale d’esercizio e al lavoro di organizzazione impiegati, nei limiti della potenzialità del terreno, nell’esercizio di attività agricole su di esso”.
A tale scopo, ipotizziamo diverse forme di redditività legate al marchio:
- utilizzo “in azienda”, nel contesto dell’attività ordinaria: il marchio “spinge” la vendita dei prodotti ma l’aumento del reddito che ne consegue, non esula dalla sfera dei redditi fondiari, ferme restando le altre condizioni;
- cessione del marchio a terzi, con la formula della cessione definitiva o della concessione in uso con contropartita di royalties: qui si impone qualche considerazione in più. Intanto occorre distinguere almeno tre casi:
- cessione dell’azienda comprensiva del marchio;
- concessione in uso dietro royalty;
- cessione del marchio svincolata dalla cessione d’azienda.
Nel primo caso, allo stato attuale, la soluzione, condivisa da giurisprudenza (cfr. CTR Torino 10/2010 e di recente CTR Basilicata 5/2016) e prassi ministeriale (circolare 9/9/252 del 21 marzo 1980) porta a concludere per l’irrilevanza, ai fini reddituali, della cessione di un’azienda agricola esercitata nei limiti dell’articolo 32 Tuir, per carenza del presupposto impositivo.
Nel secondo caso si è dell’avviso che la concessione in uso, a fronte di un corrispettivo, del marchio, determinerà in capo all’imprenditore agricolo un reddito diverso ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lettera l (obblighi di fare, non fare, permettere).
Infine, il caso della cessione del marchio posta in essere al di fuori della cessione d’azienda, benché difficilmente ipotizzabile in ambito agricolo. In prima battuta, si potrebbe pensare a una difficile corrispondenza di una simile fonte di produzione del reddito, dalle “potenzialità del terreno” cui invece si ricollega la misurazione forfettaria dei redditi fondiari.
Ricorda tuttavia l’Agenzia delle Entrate parlando di quote latte e diritti di reimpianto dei vigneti (risoluzione 51/E/2006), che il reddito agrario è determinato sulla base della rendita catastale del terreno secondo la produzione agricola da esso ritraibile in base alla coltura praticata, nel cui ambito perde rilevanza l’effettiva determinazione dei costi e dei ricavi. Rientrano pertanto nella determinazione catastale, le attività che sono riconducibili all’esercizio “ordinario” dell’agricoltura, ossia quelle collegate allo sfruttamento del terreno tra cui vanno ricomprese anche “le cessioni di beni, materiali o immateriali”: essi, in quanto utilizzati per lo svolgimento dell’attività agricola, si deve ritenere che siano in rapporto diretto col terreno.
Questo principio potrebbe in linea teorica estendersi anche ai marchi, che possiedono quelle caratteristiche di beni immateriali cui fa riferimento il documento di prassi. È pur vero, tuttavia, che sia i diritti di reimpianto dei vigneti che le quote latte, appaiono decisamente più “vicini” alle potenzialità del terreno, in virtù del carattere di necessaria connessione che la titolarità del diritto (acquisibile a titolo originario o derivato) riveste rispetto allo svolgimento delle ordinarie attività agricole, e questo lo si desume anche dai regolamenti comunitari che ne disciplinano l’attribuzione e la circolazione.
Nel caso del marchio, invece, questo collegamento è molto più sfumato visto che le norme di riferimento, al di là degli eventuali disciplinari tecnici, sono quelle delle imprese commerciali.
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