Nell’accertamento al ristorante di alto livello non rileva la quantità di materia prima utilizzata
di Angelo GinexIn tema di accertamento analitico-induttivo, può considerarsi attendibile la ricostruzione dei ricavi di un ristorante gourmet fondata sulla stima di un utilizzo di scarse quantità di materie prime per il confezionamento di ogni porzione, in quanto la clientela che ricerca una cucina di alto livello, attribuisce rilevanza non alle quantità di prodotto, ma alla presentazione del piatto e al gusto ricercato della pietanza.
Sono queste le conclusioni desumibili dalla lettura dell’ordinanza n. 6618, depositata ieri 1° marzo, con cui la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di accertamento a carico di un ristorante di alto livello (sono note, infatti, le metodologie ricostruttive del c.d. tovagliometro, bottigliometro, ecc.).
La vicenda in esame trae origine dalla notifica ad una S.a.s., esercente l’attività di ristorazione, e ai suoi soci di alcuni avvisi di accertamento, con cui l’Agenzia delle Entrate recuperava a tassazione i maggiori ricavi non dichiarati in relazione ai periodi di imposta 2004 e 2005.
In particolare, a seguito di una verifica fiscale nei confronti di un fornitore di caffè della citata S.a.s., l’Ufficio rinveniva documentazione extracontabile da cui emergeva la cessione di una ingente quantità di caffè in assenza della relativa fatturazione. Pertanto, in applicazione di una determinata percentuale di ricarico, si procedeva alla ricostruzione induttiva dei ricavi conseguenti dal ristorante, ai sensi dell’articolo 39, comma 1, lett. d), D.P.R. 600/1973 e dell’articolo 54, comma 1, D.P.R. 633/1972.
Tali atti venivano impugnati dai contribuenti lamentando l’errata metodologia di accertamento adottata, quanto ai cali e agli sfridi del materiale, all’utilizzo alternativo dei prodotti che incidevano sui quantitativi di materie prime e sulle dosi di prodotto utilizzate nel confezionamento delle pietanze, nonché in ordine all’individuazione dei prezzi medi per porzione e al numero dei coperti serviti.
La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso e annullava gli atti impugnati, mentre il giudice di appello, cui ricorreva l’Agenzia delle Entrate, riformava la pronuncia di primo grado, confermando la legittimità degli atti impugnati.
Pertanto, la S.a.s. e i suoi soci proponevano ricorso in Cassazione affidato a ben quattordici motivi di doglianza. Nelle more, questi dichiaravano di volersi avvalere della definizione agevolata delle liti di cui all’articolo 6 D.L. 119/2018, fatta eccezione per un socio in relazione all’avviso di accertamento 2004.
Ai fini che qui interessano, si rileva che, tra gli altri, con quattro motivi di ricorso che sono stati scrutinati insieme dalla Suprema Corte, perché tutti volti a criticare la ricostruzione dei ricavi operata dall’Ufficio, detto socio censurava la sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto corretto il meccanismo di calcolo adoperato, anche se privo di riscontro nella realtà aziendale.
In particolare, questi lamentava la violazione e falsa applicazione dell’articolo 39, comma 1, lett. d), D.P.R. 600/1973 e dell’articolo 54, comma 1, D.P.R. 633/1972, poiché la CTR aveva omesso di considerare le obiezioni formulate dalla S.a.s. in merito alla percentuale di ricarico applicata, alla stima delle dosi somministrate e dei prezzi.
Ebbene, la Corte di Cassazione ha ritenuto infondate le doglianze avanzate, evidenziando come non sussista affatto il dedotto omesso esame, da parte del giudice di appello, delle deduzioni difensive volte a denunciare l’erroneità della ricostruzione dei ricavi operata dall’Ufficio.
I giudici di legittimità hanno osservato che la CTR, potendo limitarsi ad esporre sinteticamente gli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento della decisione, ha disatteso, con motivazione logica e adeguata, le doglianze sulla non corretta quantificazione del numero dei coperti, sulla arbitraria quantificazione dei caffè serviti al ristorante e sulla non corretta determinazione dei prezzi per porzione.
In conseguenza di ciò, è stato osservato dalla Suprema Corte, l’apprezzamento svolto dal giudice di appello non può essere scrutinato in Cassazione, mancando la deduzione di un fatto storico, rilevante e decisivo, idoneo a condurre ad una diversa ricostruzione dei redditi.
Al riguardo, i giudici di vertice hanno rilevato che, tra le altre, è stata considerata attendibile la quantità di carne e pesce indicata dall’Ufficio in relazione a ciascuna pietanza, in considerazione del fatto che, in ristoranti di un certo livello, la clientela non attribuisce rilevanza alle quantità, ma piuttosto alla presentazione del piatto e al gusto ricercato della pietanza. E ciò, a prescindere dalla circostanza che si tratti di menù degustazione, di colazione di lavoro, di banchetto o di normale cena.
Inoltre, è stato evidenziato che sono state ritenute coerenti, dalla CTR, anche le ricostruzioni dei prezzi per ciascun piatto, sia alla carta che su menù fisso, con la precisazione che il volume d’affari verificato risultava del tutto sproporzionato rispetto all’utile irrisorio di esercizio dichiarato, con conseguente antieconomicità dell’attività svolta dal contribuente.
Sulla base di quanto sopra sinteticamente esposto, il ricorso del contribuente è stato quindi rigettato.