Nelle imprese in crisi la vendita sottocosto non è operazione antieconomica
di Fabio Landuzzi
Un filone accertativo abbastanza ricorrente è quello con cui l’Amministrazione Finanziaria contesta la liceità fiscale di operazioni economiche concluse da un’impresa realizzando una perdita oppure sostenendo spese comunque giudicate eccessive rispetto ai proventi a cui esse sono, o possono essere, correlate; si tratta di rilievi che hanno come comune denominatore la nozione di “antieconomicità”. Nella Circolare della Guardia di Finanza n. 1/2008 la questione era già stata segnalata anche attraverso il richiamo alla giurisprudenza che legittima la rilevanza indiziaria del comportamento antieconomico dell’imprenditore, quando questo non sia giustificato o motivato in modo adeguato, ed in modo particolare quando ricorrono altri elementi presuntivi a sostegno della contestazione stessa.
E’ evidente però che se questo orientamento deve correttamente perseguire fenomeni fiscali patologici di evasione, dall’altro, non può giungere sino ad ammettere un generale sindacato di meritevolezza della conduzione della gestione d’impresa che non compete certo all’Amministrazione, come pure non può indurre a pensare che ogni qualvolta sia compiuta un’operazione in perdita, oppure ogni qualvolta un’impresa produca reiterare perdite, questo sia sintomatico di fenomeni di evasione. Ciò sarebbe in evidente antitesi con lo stesso rischio di impresa sotteso a qualsivoglia attività economica.
Il tema della antieconomicità (o presunta tale) delle operazioni compiute dall’impresa, diventa peraltro assai delicato quando lo si inserisce nel contesto di un’impresa in crisi in cui spesso è tutt’altro che patologico osservare il compimento di operazioni finalizzate al realizzo di elementi attivi al preminente scopo di “fare cassa”, anche sacrificando in modo importante la redditività.
La Corte di Cassazione nella sentenza n. 16695 del 3 luglio 2013 si è occupata di un caso interessante a questo riguardo. L’Amministrazione Finanziaria aveva infatti contestato ad una società, poi dichiarata fallita, l’omesso versamento di IVA eccependo l’esistenza in via presuntiva ex articolo 54, comma 2, DPR 633/1972, di maggiori corrispettivi percepiti in relazione ad una vendita di prodotti per il solo fatto che essa era avvenuta ad un prezzo inferiore al costo di produzione.
La vicenda, dopo una parziale alternanza di giudizi nei due gradi di merito, giungeva in Cassazione dove, fra l’altro, la società eccepiva che la contestazione era stata sollevata dall’Amministrazione senza considerare affatto che l’antieconomicità dell’attività svolta trovava proprio una precisa ed obiettiva ragione e giustificazione nella crisi in cui l’impresa si trovava attanagliata, tanto poi da sfociare nel suo fallimento. La Suprema Corte, richiamando anche propria precedente giurisprudenza (Cassazione n. 6849/2009), ha sottolineato dapprima che in tema di Iva, per presumere ex articolo 54, comma 2, DPR 633/1972, l’esistenza di ricavi superiori a quelli contabilizzati e quindi assoggettati ad imposta “non bastano semplici indizi, ma occorrono circostanze gravi, precise e concordanti”. Nel caso in questione, constatato lo stato di crisi dell’impresa, risultava del tutto evidente che ben altro era il prezzo che l’impresa può ricavare da un bene quando esso è immesso nel circuito di una impresa in attività, rispetto a quello a cui lo stesso può essere realizzato quando, ad esempio, deve essere inserito nell’ambito di una vendita fallimentare od altra comunque assimllata.
Di conseguenza, la vendita sottocosto dell’impresa in stato di crisi, salvo che ricorrano ben altre circostanze gravi, precise e concordanti, appare come una condotta fiscalmente non stigmatizzabile proprio in ragione dello stato dell’impresa in cui l’operazione economica deve essere necessariamente contestualizzata per una sua obiettiva valutazione; la quale, non potrà prescindere dal considerare le mutate esigenze dell’impresa laddove l’aspetto finanziario diventa spesso preminente rispetto a quello economico, tanto da giustificare un sacrificio della redditività senza che ciò debba necessariamente generare fattispecie suscettibili di accertamenti di natura tributaria.