Niente Irap se ci si avvale di un solo dipendente part-time
di Luigi FerrajoliL’assoggettabilità dei professionisti all’Irap è tra i temi più interessanti e dibattuti nel sistema tributario.
Com’è noto, il lavoro autonomo non è soggetto al versamento dell’Irap a meno che non si tratti di un’attività autonomamente organizzata; sul punto si era espressa la Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 156/2001 nella quale aveva precisato che “mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui”.
La giurisprudenza di merito e di legittimità si è divisa sui contenuti del concetto di “autonoma organizzazione”: secondo l’orientamento prevalente della Cassazione, tale requisito dell’autonoma organizzazione sussisterebbe ogni volta che il contribuente sia il responsabile diretto dell’attività e non sia inserito in strutture organizzative riferibili a responsabilità ed interessi esterni.
Nell’attesa dell’emanazione del provvedimento per la definizione definitiva, in attuazione di quanto previsto nella Legge n. 23/2014 (c.d. delega fiscale), la Corte di Cassazione è nuovamente tornata ad esprimersi, con la sentenza n. 1544 del 27.01.2015, in ordine alla configurabilità di un’autonoma organizzazione in caso di presenza di un solo dipendente, nel caso di specie peraltro part-time.
La vicenda oggetto della sentenza in commento concerne un medico pediatra cui l’Agenzia delle entrate aveva contestato il mancato versamento dell’Irap in considerazione della circostanza che nell’esercizio dell’attività la professionista si avvaleva dell’opera di un inserviente part-time, soccombendo in primo ed in secondo grado.
L’Amministrazione finanziaria ha proposto ricorso per Cassazione eccependo la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 D.Lgs. n. 446/1997, lamentando che i Giudici di secondo grado avessero errato nel ritenere che tale fatto non fosse sufficiente ad integrare il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso, non condividendo l’assunto dell’Agenzia delle entrate secondo cui la collaborazione dell’inserviente part-time sarebbe di per sé sufficiente ad integrare il presupposto impositivo a prescindere dal concreto contenuto qualitativo e quantitativo delle prestazioni effettuate.
Secondo i Giudici, l’imposta in esame colpisce il “valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate” e la nozione di autonoma organizzazione si deve definire in termini di contesto organizzativo esterno, diverso ed ulteriore rispetto al mero ausilio all’attività personale, costituente un quid pluris in grado di fornire un apprezzabile apporto al professionista.
Spetta poi al giudice di merito verificare se la prestazione lavorativa sia concretamente idonea ad integrare, anche in concorso con altri fattori, un contesto organizzativo esterno rispetto all’operato del professionista (per il tipo di contenuto o per la rilevanza quantitativa), oppure costituisca un mero ausilio all’attività di quest’ultimo. Il Giudice deve accertare, caso per caso, se l’apporto di lavoro altrui ecceda l’ausilio minimo indispensabile per lo svolgimento di una determinata attività professionale.
Come infatti già precisato dalla medesima Corte nella sentenza n. 22024/13, “l’automatica sottopozione ad IRAP del lavoratore autonomo che disponga di un dipendente, qualsiasi sia la natura del rapporto e qualsiasi siano le mansioni esercitate, vanificherebbe l’affermazione di principio desunta dalla lettera della legge e dal testo costituzionale secondo cui il giudice deve accertare in concreto se la struttura organizzativa costituisca un elemento potenziatore ed aggiuntivo ai fini della produzione del reddito, tale da escludere che l’IRAP divenga una (probabilmente incostituzionale) tassa sui redditi di lavoro autonomo”. Pertanto – premesso che, in linea astratta, non può affermarsi che l’apporto fornito all’attività di un professionista dall’utilizzo di ordinarie prestazioni ausiliarie (come quelle di un segretario o di un inserviente) costituisca di per se stesso, a prescindere da qualunque analisi qualitativa e quantitativa di tali prestazioni, un indice indefettibile della presenza di un’autonoma organizzazione, dovendosi al contrario ritenere che l’apporto di un collaboratore che apra la porta o risponda al telefono mentre il medico visita il paziente o l’avvocato riceve il cliente, o che tenga i ferri mentre il dentista opera, rientri, secondo l’id quodplerumque accidit, nel minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività professionale – compete al giudice di merito apprezzare, con un giudizio di fatto censurabile solo sotto il profilo del vizio di motivazione, se nel caso concreto, per le specifiche modalità qualitative e quantitative delle prestazioni lavorative di cui il professionista si avvale, le stesse debbano giudicarsi eccedenti il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività professionale”.