Niente reato se l’impresa è in crisi
di Luigi FerrajoliÈ del 12 febbraio scorso l’interessante sentenza n. 6737 della Terza Sezione Penale della Cassazione che ha affrontato il tema dell’omesso pagamento di ritenute e imposte da parte dell’imprenditore che, stante la crisi aziendale e la mancanza di liquidità, si sente obbligato a corrispondere gli stipendi ai propri dipendenti per garantirne il sostentamento.
Nel caso specifico, un’imprenditrice era stata condannata dal Tribunale di Bergamo alla pena di un anno e sei mesi di reclusione per il reato disciplinato dall’articolo 10 bis D.Lgs 74/2000, per aver omesso, quale legale rappresentante di una S.p.a., di versare le ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti entro il termine per presentare la dichiarazione annuale del sostituto d’imposta per l’anno 2009, per un importo totale di euro 873.371,95.
La Corte di Appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva ridotto la pena ad un anno di reclusione, per cui la legale rappresentante aveva presentato ricorso in Cassazione lamentando l’errore di diritto in cui erano incorsi i giudici di secondo grado che avevano, non correttamente, ravvisato la sussistenza dell’elemento soggettivo necessario ad integrare la fattispecie dell’omesso versamento delle ritenute previsto dal menzionato articolo 10 bis.
I giudici di merito avevano, infatti, omesso di considerare che, da un lato, ella non aveva potuto accantonare mensilmente gli importi delle ritenute dovute per il periodo di imposta 2009, essendo divenuta amministratrice il 25 febbraio 2010 e, dall’altro, che al momento del suo insediamento, la società versava in una situazione di crisi di liquidità.
Per tali ragioni, la contribuente aveva eccepito che sarebbe stato incostituzionale ritenere punibile l’imprenditore “che omette il versamento delle ritenute fiscali, a causa di una crisi finanziaria e per far fronte ad improcrastinabili adempimenti verso altri creditori, quali i lavoratori dipendenti, pure tutelati dalla Costituzione, con particolare riferimento al diritto al lavoro e alla conseguente retribuzione“.
Orbene, in accoglimento delle predette doglianze, la Cassazione ha stabilito che la corte territoriale non avesse correttamente giudicato nel ravvisare l’elemento soggettivo nella condotta della ricorrente. Secondo la Corte non si poteva dire sussistente il dolo specifico, posto che l’imprenditrice aveva omesso il pagamento delle ritenute nella ferma convinzione “che i dipendenti necessitassero l’immediata corresponsione non di somme di denaro di per sé, bensì di “mezzi di sostentamento necessari” per loro e per le loro famiglie”.
Il ricorso è stato quindi accolto in considerazione del fatto che “l’imputata non aveva affermato di “aver scelto di pagare”, bensì che le era “parsa sinceramente obbligata” tra le due opzioni – pagamento dei dipendenti e delle ritenute fiscali – alla prima; affermare di essersi ritenuti obbligati a fare una determinata cosa non equivale, logicamente, ad ammettere di aver scelto di non fare una cosa diversa, perché l’adempimento di un dovere non coincide con una scelta, neppure se questa ha un oggetto diverso”.
In ogni caso, la Cassazione ha rammentato che, per il reato ex articolo 10 bis D.Lgs. 74/2000, è sufficiente che sussista il dolo generico che, come tale, deve presupporre nell’agente la consapevolezza della illiceità della condotta posta in essere volontariamente dall’agente (“…quel che qui rileva è, indubbiamente, l’elemento soggettivo poiché, come si è visto, il ricorso raggiunge l’acme delle sue argomentazioni nell’affermare […] che il dolo non può sussistere in quanto, altrimenti, non potrebbe che configurarsi un contrasto con la carta costituzionale laddove dovesse ritenersi la punibilità del soggetto imprenditore che omette il versamento delle ritenute fiscali, a causa di una crisi finanziaria e per far fronte ad improcrastinabili adempimenti verso altri creditori, quali i lavoratori dipendenti”).
Ma era proprio la consapevolezza nell’illiceità della condotta che la Terza Sezione ha ritenuto essere assente nel caso in esame: essa non può di certo mancare se il reato è commesso da chi riveste, per legge, la funzione di sostituto d’imposta. Quel che l’imprenditrice bergamasca aveva semplicemente assunto era, infatti, una condotta diretta a fine – per così dire – superiore.
La Cassazione ha infine ritenuto errata anche l’interpretazione della Corte territoriale che si era limitata a vedere nel pagamento degli stipendi un’ammissione di liquidità, così escludendo finanche che l’imprenditrice potesse trovarsi in stato di necessità e, quindi, in una situazione di assoluta impossibilità ad adempiere il debito d’imposta.
Per tali ragioni, non avendo la corte territoriale correttamente applicato l’articolo 10 bis D.Lgs. 74/2000 in relazione al necessario accertamento della fattispecie criminosa come disegnata dalla suddetta norma, la Cassazione ha accolto il ricorso e annullato con rinvio la sentenza impugnata.