Non bastano le aggiunte legislative introdotte con il decreto correttivo per razionalizzare del tutto il reddito di lavoro autonomo
di Luciano SorgatoL’articolo 6 del Decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri in data 30.4.2024 ha razionalizzato il regime fiscale delle cessioni di partecipazioni in associazioni tra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni, introducendo un duplice ordine di modifiche:
- all’articolo 67, comma 1, lett. c e c-bis, Tuir, con la soppressione delle parole: “escluse le associazioni di cui all’art 5, comma 3, lett. C”;
- alla lett. g-ter, del comma 1, dell’articolo 17, Tuir, sostituendo l’attuale dato legislativo con la diversa scrittura normativa: “corrispettivi percepiti a seguito di cessione della clientela e di elementi immateriali, incluse le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di partecipazioni in associazioni, società ed enti, comunque riferibili all’attività artistica o professionale, se percepiti anche in più rate, nello stesso periodo d’imposta”.
Le nuove prescrizioni consentono di conseguire coerenza impositiva in caso di cessione di partecipazioni in associazioni professionali, mediante l’articolo 54, Tuir, che prevede la rilevanza imponibile delle plusvalenze nel reddito di lavoro autonomo. In altri termini, mentre originariamente la mancata previsione della rilevanza delle plusvalenze (come componenti reddituali positive rilevanti nel reddito di lavoro autonomo) giustificava l’esclusione da ogni rilievo impositivo in ordine alla cessione delle partecipazioni in associazioni professionali, con la sopravvenuta prescrizione della tassazione delle plusvalenze maturate in conto ai beni impiegati nell’esercizio dell’arte o professione, era venuto a generarsi una manifesta asimmetria con la persistente detassazione del capital gain insito nelle partecipazioni cedute.
Si deve, infatti, considerare come tra la partecipazione ed il compendio patrimoniale usato nell’esercizio dell’arte o della professione, nonostante i loro diversi regimi giuridici e regole circolatorie, sotto il profilo della stretta rappresentazione economica interagiscono per il tramite di un chiaro cordone ombelicale, nel senso che, al di là dei diversi governi di diritto, sono sostanzialmente riconducibili ad unitarietà, per cui un distinto regime di tassazione (rilevanza impositiva per la plusvalenza dei beni di primo grado ed irrilevanza fiscale per il capital gain del bene di secondo grado), costituisce una manifesta asimmetria di effetti fiscali sulla medesima ricchezza.
Tale distorsione è stata ora rimossa con i riportati aggiustamenti normativi. Tuttavia, tali modifiche non bastano ancora per il conseguimento di una piena ristrutturazione impositiva nell’ambito del reddito di lavoro, che ambisca a rimuovere ogni incongruenza fiscale, dal momento che continua a vertere, in una condizione di asimmetria, la sorte fiscale del compendio patrimoniale dell’esercente arti o professioni, in caso di suo decesso. La norma che continua ad essere menomata di specifica previsione impositiva nel caso di cessione del compendio patrimoniale appartenuto al lavoratore autonomo da parte dei suoi eredi, è l’articolo 67, comma 1, lett. h-bis, Tuir, la quale connota come manifestazione di reddito diverso, la sola cessione anche parziale delle aziende acquisite dagli eredi dell’imprenditore, ai sensi dell’articolo 58, Tuir, mentre non si registra analoga rilevanza impositiva in ordine alla cessione dell’organizzazione patrimoniale del professionista deceduto da parte dei propri eredi e, nonostante nell’articolo 54, Tuir, siano state previste, come fiscalmente rilevanti, le plusvalenze per destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’arte o della professione. Si tratta di una perdurante omissione impositiva che necessita di una maggiore coerenza legislativa, al fine di perseguire la chiusura di distorsivi salti d’imposta ancora oggi non sanati e non rimediabili attraverso forme d’interpretazione analogica o di orientamento costituzionale, essendo sempre precluso all’interprete andare oltre la chiara lettera legislativa, in quanto, in tal caso, si manomette indebitamente il principio costituzionale della riserva di legge (articolo 23 Cost.).
A tal proposito, si ritiene necessario anche sottolineare, proprio per l’evidente congiunzione della tematica in esame, come il medesimo effetto distorsivo persista anche nel comparto Iva.
Il comma 2, dell’articolo 35-bis, D.P.R. 633/1972, infatti, testualmente recita: “Resta ferma la disciplina stabilita dal presente decreto per le operazioni effettuate, anche ai fini della liquidazione dell’azienda, dagli eredi dell’imprenditore”. Anche tale norma arresta inequivocabilmente l’ultrattività della soggettività tributaria del de cuius al solo imprenditore deceduto, senza consentire, per via interpretativa, l’estensione temporale dello status soggettivo dell’esercente l’arte o professione, in ordine alla liquidazione della dotazione patrimoniale che il lavoratore autonomo impiegava a supporto della propria attività.
In entrambi i casi normativi (articolo 67, comma 1, lett. h-bis, Tuir e articolo 35-bis, comma 2, D.P.R. 633/1972) risultano invalicabili i riferimenti legislativi all’azienda e agli eredi dell’imprenditore
Il comma 2, dell’articolo 35-bis, D.P.R. 633/1972, si è reso necessario allo scopo di evitare il salto d’imposta in ordine a tutti i rapporti economico-giuridici che, ordinariamente, s’intersecano con le complessive dinamiche liquidatorie dell’azienda e con la peculiare tipicità della sua connotazione civilistica di universitas rerum. Con il decesso dell’imprenditore e la naturale estinzione del suo specifico status fiscale, senza l’artifizio legislativo della sua ultrattività rispetto alla morte, la disciplina Iva, in ordine alla liquidazione dell’azienda, sarebbe venuta a vertere in una condizione menomata rispetto alla sua imprescindibile struttura ternaria di presupposti (soggettivo, oggettivo e territoriale), venendo a mancare, nei confronti della comunione ereditaria, lo status di soggetto passivo d’imposta. La mancanza di intenti imprenditoriali perseguiti personalmente dagli eredi dell’imprenditore deceduto – che non proseguono l’impresa del de cuius – determinava il complessivo arresto della disciplina Iva per mancanza dell’ineludibile presupposto soggettivo. L’ultrattività dello status passivo – ed il mantenimento della partiva Iva dell’imprenditore deceduto per tutte le operazioni imponibili causalmente connesse alla liquidazione dell’azienda – hanno costituito la sintesi di raccordo tra la conformazione comunitaria dell’Iva e la chiusura del ciclo produttivo, senza salti d’imposta, dei beni e dei rapporti economico-giuridici in genere costituenti l’azienda del de cuius.
Con il comma 2, dell’articolo 35 bis, D.P.R. 633/1972, e con la specifica previsione di perpetuazione della partita Iva del de cuius, il legislatore ha chiuso ogni salto d’imposta in ordine al regime d’impresa, ma tale razionale chiusura, del tutto coerente con le logiche impositive dell’Iva, continua a non essere prevista per l’analoga liquidazione della dotazione patrimoniale di supporto all’attività del professionista, nonostante essa possa raggiungere forme di complessità del tutto ricalcanti quelle dell’azienda. Come noto, anche se la consistenza delle strutture patrimoniali di supporto dell’attività del professionista possono perequare i livelli dimensionali e i moduli organizzativi dell’impresa, sia la dottrina che la giurisprudenza commercialistica hanno sempre escluso una loro ricongiunzione concettuale con l’azienda, rimanendo assolutamente immanente, nel modello organizzativo della professione, l’elemento personalistico del professionista ed il suo stretto rapporto fiduciario con il cliente. Tale disconosciuta equivalenza delle dinamiche organizzativo – patrimoniali del professionista con l’azienda ha portato all’uso legislativo di termini magari poco appropriati (come cessione della clientela presente nell’articolo 54, Tuir), ma chiaramente sintomatici dell’impossibilità di riunirli in un unitario concetto e disciplina.
L’incoerenza della mancata estensione legislativa del regolamento predisposto all’articolo 35 bis, comma 2, D.P.R. 633/1972, per gli eredi dell’imprenditore, agli eredi del lavoratore autonomo, non colmabile per via interpretativa, dal momento che gli espedienti sostitutivi del mancato riscontro di un presupposto Iva non possono che essere di competenza del legislatore, deriva essenzialmente dal fatto che, nel progredire del tempo, il legislatore ha avvertito la necessità di riunire all’articolo 2, comma 2, punto 5, D.P.R 633/1972 (come fattispecie di cessione di beni assimilata) anche la destinazione di beni all’uso o al consumo personale o familiare dei professionisti o, comunque, a finalità estranee all’esercizio delle attività artistiche o professionali, pur se determinate da cessazione dell’attività. Con tale ricongiunzione alla preesistente previsione, circoscritta alla sola impresa e al solo imprenditore, il legislatore ha dimostrato di assumere ad identica rilevanza Iva la chiusura fiscale sia dell’azienda che della dotazione patrimoniale del professionista. Nonostante, però, tale equiparata considerazione Iva delle due diverse connotazioni patrimoniali, il legislatore non è intervenuto con analoga equiparazione nell’articolo 35bis, comma 2, D.P.R. 633/1972, che, quindi, continua a riferire alla sola liquidazione dell’azienda da parte degli eredi dell’imprenditore.
Non è neppure possibile, per comune giudizio della dottrina, raccordare la fattispecie della destinazione a finalità estranea all’esercizio dell’arte o della professione, anche se determinata da cessazione dell’attività, al mero decesso del professionista, dal momento che la configurazione “dell’atto di destinazione” richiede una precisa dinamica decisoria del contribuente, per cui senza il personale atto volitivo del professionista non è possibile il raccordo con la previsione di imponibilità del citato punto 5, comma 2, articolo 2, D.P.R. 633/1972. Da tale impossibile ricongiunzione deriva, quindi, l’impossibilità di preservare dal salto d’imposta le operazioni di liquidazione nel caso di decesso del professionista, rendendosi, a tal proposito, necessario per evitare il pregiudizio fiscale uno specifico intervento del legislatore.
Tutte le predette osservazioni esposte in tema Iva sono in gran parte traslabili anche nel reddito di lavoro autonomo, con l’aggiunta in quest’ultimo dell’opzione legislativa al ricorso alla categoria dei redditi diversi, idonea a supplire alla convenzionale perpetuità dello status soggettivo dell’esercente l’arte o professione, così come è stata la scelta del legislatore per l’imprenditore deceduto. In mancanza, però, di un’analoga aggiunta nella lett. h-bis, del comma 1, dell’articolo 67, Tuir, proprio per i motivi già sopra rappresentati, in ordine all’articolo 35-bis, comma 2, D.P.R. 633/1972, in caso di decesso del lavoratore autonomo e di subentro dei suoi eredi che non intendono proseguire l’attività, la cessione del compendio patrimoniale del de cuius, anche se plusvalente, continua a rimanere privo di supporto normativo e, quindi, fiscalmente irrilevante, con la persistenza di una chiara distorsione impositiva rispetto alla tassazione della stessa ricchezza plusvalente direttamente ceduta dall’esercente l’arte o la professione.
Occorre, quindi, allo scopo di portare a compimento l’opera di restaurazione del reddito di lavoro autonomo, un ulteriore duplice aggiustamento (oltre a quelli già introdotti all’articolo 67, comma 1, lett. c e c-bis, e all’articolo 17, comma 1, g-ter), all’articolo 54, Tuir, allo scopo di prevedere una disciplina identica a quella prevista all’articolo 67, comma 1, lett. h-bis, Tuir, nel caso gli eredi intendano direttamente disinvestire il compendio patrimoniale del professionista. Tali aggiustamenti andrebbero, infine, completati in tema di Iva, con l’introduzione di una previsione legislativa del tutto ricalcante quella già prevista nell’articolo 35-bis, comma 2, D.P.R. 633/1972, anche per gli eredi del lavoratore autonomo.