La Commissione tributaria regionale del Piemonte, su appello dell’Agenzia delle entrate, confermava la decisione dei giudici di prime cure, sostenendo che, alla luce dei limiti posti dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 7388/2007, nel caso di atti definitivi per mancata impugnazione, potessero essere oggetto di autotutela solo quelli connotati da infondatezza (cioè viziati sotto il profilo sostanziale in ordine ai presupposti dell’imposizione), come nel caso di specie.
L’Agenzia delle Entrate proponeva quindi ricorso in Cassazione, per lamentare, tra gli altri motivi, la violazione degli articoli 2, 7 e19 D.Lgs. 546/92e dell’articolo 68 D.P.R. 287/82 e dei principi generali in materia di autotutela, in relazione all’articolo 360, comma 1, numero 3, cod. proc. civ. La ricorrente sosteneva la impossibilità per il giudice di sindacare il diniego dell’esercizio di autotutela valutando anche la fondatezza della pretesa, nel caso di atto impositivo divenuto definitivo. Asseriva inoltre che il sindacato di autotutela dovesse attenere solo al corretto esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione e non potesse riguardare l’atto investito dalla richiesta di autotutela.
Ebbene, la Corte di Cassazione ha ritenuto ammissibili le suddette doglianze, precisando che il diniego di autotutela, non avendo contenuto precettivo autonomo (sia pure di mera conferma del precedente avviso impositivo), non può rientrare tra gli atti definibili ai sensi dell’articolo 6 D.L. 119/2018.
I giudici di vertice hanno rammentato che l’attribuzione al giudice tributario, da parte dell’articolo 12, comma 2, L. 448/2001, di tutte le controversie in materia di tributi di qualunque genere e specie comporta che anche quelle relative agli atti di esercizio dell’autotutela tributaria, in quanto comunque incidenti sul rapporto obbligatorio tributario, devono ritenersi devoluti al giudice la cui giurisdizione è radicata in base alla materia, indipendentemente dalla specie di atto impugnato. Pertanto, sebbene il provvedimento di autotutela sia discrezionale e comporti l’affievolimento della posizione soggettiva del contribuente ad interesse legittimo, ciò non comporta la sottrazione delle controversie sui relativi atti al giudice naturale, ossia al giudice tributario (cfr., Cass. SS. UU. 27.03.2007, n. 7388).
La Corte ha inoltre precisato che il sindacato del giudice tributario sul provvedimento di diniego dell’annullamento dell’atto tributario divenuto definitivo è consentito, purché si accerti la ricorrenza di ragioni di rilevante interesse generale dell’Amministrazione finanziaria alla rimozione dell’atto, originarie o sopravvenute. Al contrario, deve escludersi che possa essere accolta l’impugnazione dell’atto di diniego proposta dal contribuente, il quale contesti vizi dell’atto impositivo che avrebbe potuto far valere, per tutelare un interesse proprio, in sede di impugnazione prima che diventasse definitivo (cfr. Cass. sent. 23.01.2019, n. 1803; Cass. sent. 20.02.2019, n. 4937; Cass. ord. 30.12.2020, n. 29874).
Nella fattispecie in esame, la Corte ha sottolineato che: «né dalla motivazione né dal controricorso emerge che il contribuente abbia dedotto ragioni di rilevante interesse generale a sostegno dell’istanza di autotutela» e, conseguentemente, la Commissione tributaria regionale non si è attenuta ai principi suesposti, precisando in motivazione (al contrario!) che i motivi esposti dal contribuente nell’istanza di autotutela attenessero alla sua estraneità alla pretesa tributaria. Trattasi dunque di un interesse dedotto che è «astratto e, come tale, non idoneo a giustificare la doglianza contro il diniego di autotutela, occorrendo a tal fine un interesse generale, che travalica quello individuale della parte in causa».
In virtù delle suesposte argomentazioni, il ricorso contro il diniego della definizione agevolata è stato rigettato, mentre, in accoglimento del primo motivo di ricorso dell’Agenzia delle Entrate, la sentenza impugnata è stata cassata.