Il semplice richiamo alle risultanze dei questionari sottoposti ai soci, la pratica di attività pubblicitaria e le generali manchevolezze nei lavori assembleari non sono elementi da soli sufficienti a contestare la violazione dei principi di democraticità e uguaglianza di una associazione e legittimare il disconoscimento della natura associativa di una asd.
È questo uno dei principi affermati dalla sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Torino n. 806/24/14 del giugno scorso, nella quale i giudici tributari, oltre a castigare la lettura acritica e pretestuosa di elementi di fatto non rilevanti
operata dall’amministrazione finanziaria, richiedono all’Ufficio un maggiore sforzo probatorio al fine di legittimare il disconoscimento della natura associativa di un ente e confermano la piena compatibilità dell’esercizio di attività a carattere commerciale da parte di asd.
La lite nasceva, infatti, da un accertamento operato nei confronti di una associazione sportiva dilettantistica alla quale era stata disconosciuta la natura associativa in ragione del carattere tipicamente commerciale delle attività svolte, desunto in sede ispettiva dalla riscontrata
attività
di pubblicità
svolta, dalla differenziazione delle quote versate dai frequentatori in base alla durata del servizio sportivo goduto e della presunta violazione del principio di democraticità e uguaglianza degli associati derivante dalla lettura delle risposte ai questionari a cui erano stati sottoposti gli associati e dall’analisi dei verbali di assemblea da cui non era chiaro il numero preciso e il nominativo dei presenti.
La sentenza di primo grado aveva considerando fondati i rilievi svolti dall’Ufficio e aveva accolto solo parzialmente il ricorso presentato dall’associazione dichiarando non dovute solamente gli importi delle sanzioni comminate per mancata tenuta dei registri IVA da parte dell’ente che, come la difesa sosteneva, aveva agito in buona fede in virtù del regime fiscale di maggior favore che riteneva di poter legittimamente utilizzare. Recitava infatti la sentenza di primo grado che “il fatto che l’associazione sia un’associazione senza scopo di lucro non esclude che le attività e i servizi svolti a pagamento non si configurino come attività commerciali. Del resto la normativa di legge non esclude che le asd possano svolgere anche attività commerciale ma che tale attività deve essere dichiarata in bilancio”, in ragione di ciò, “ritenuto dimostrato il carattere prettamente commerciale dell’attività dell’associazione”, si dichiarava fondato il recupero d’imposta operato dall’ufficio e il ricorso veniva accolto solo in relazione alle sanzioni IVA.
Proponeva appello l’associazione chiedendo la riforma della sentenza di primo grado, con conseguente annullamento degli avvisi di accertamento e delle cartelle esattoriali emesse, in ragione della carenza di motivazione della pronuncia e dell’infondatezza dei rilievi di fatto mossi dall’Ufficio.
La Commissione Regionale, pur condividendo l’impostazione di principio della pronuncia di primo grado, ritiene, tuttavia, che questa debba essere riformata in quanto, il collegio di prime cure risulta aver validato gli elementi di fatto proposti dall’Ufficio a sostegno dell’accertamento svolto, senza in realtà sottoporli ad alcun esame critico.
Se è, dunque, vero che spetta all’associazione fornire prova del diritto a godere del regime agevolativo riservato dalle norme alle asd, è però altrettanto vero che l’Ufficio ha contestato la natura associativa dell’appellante sulla base di “un modello astratto assunto a riferimento e da loro implicitamente elaborato ma di cui non è affatto chiara la configurazione”.
L’ufficio e i giudici di primo grado non spiegano affatto “come le quote differenziate per i servizi erogati fossero cosa diversa dai servizi prestati per i soli tesserati dell’associazione. Inoltre non esplicitarono il motivo per il quale un’asd non potesse effettuare pubblicità. Infine è incomprensibile come dalle dichiarazioni rese dai frequentatori fosse possibile inficiare la mancanza di democraticità all’interno dell’ente”.
In altri termini, concludono i giudici, “non può essere condivisa la tesi dell’ufficio in quanto non dimostrata circa la carenza di democraticità interna all’associazione.”
Infine, in merito alla contestata violazione dell’obbligo di tracciabilità delle movimentazioni in contanti superiori ad euro 516,47 la Commissione chiarisce che, come espressamente previsto dalla norma violata, l’inosservanza del limite comporta unicamente la predita del diritto ad utilizzare il regime fiscale di cui alla legge 398/91 e non il disconoscimento della natura di asd come, invece, preteso dall’Ufficio. Risultando dall’avviso di accertamento che l’appellata aveva chiaramente violato la norma, l’Ufficio doveva dichiarare nell’atto l’avvenuta decadenza dal regime citato” tuttavia, non essendo tale decadenza denunciata nel corso del giudizio dall’amministrazione essa, in quanto eccezione in senso stretto, non può ora essere rilevata d’Ufficio da questa Commissione” pertanto, l’appello deve essere accolto e l’avviso di accertamento oggetto di giudizio dichiarato illegittimo.