Obbligo di diligenza professionale e responsabilità
di Comitato di redazioneMonito a tutti i Colleghi che leggono questo pezzo.
Ogni volta che un cliente entra nel nostro studio, ci lascia un documento, ci chiede un consiglio, esordite sempre con questa frase: “Carissimo, la deontologia professionale mi impone di …”.
Poi continuate come volete, ma non fatevi mai mancare questo attacco; risulta imprescindibile per la salvaguardia nostra e del nostro portafogli.
Il motivo di tale incipit ci è fornito dall’ennesima pronuncia della Cassazione sul tema della responsabilità professionale; in particolare, ci riferiamo alla sentenza n.13007 del 23 giugno 2016.
I fatti in causa sono abbastanza chiari: un orologiaio (quindi, ci verrebbe da dire, una persona per sua natura precisa e puntuale), risulta soccombente in una controversia fiscale in Commissione Regionale.
Ricevuto il dispositivo lo consegna (a suo dire) al suo commercialista; non si sa per quali motivazioni, ma accade che trascorre inutilmente il termine per l’impugnativa in Cassazione, con la conseguenza che il detto contribuente deve corrispondere le maggiori imposte, sanzioni ed interessi.
Di chi può essere secondo voi la colpa?
Non pensateci troppo, lo anticipiamo noi: la colpa è del professionista, nonostante la Corte d’Appello avesse concluso che il commercialista non avrebbe comunque potuto presentare il ricorso per Cassazione e, per conseguenza, anche si fosse impegnato a fornire una consulenza in merito ai possibili tempi e rimedi avverso la sentenza negativa della CTR, il suo operato non avrebbe comunque influito sul fatto che il contribuente avrebbe dovuto interpellare un avvocato cassazionista.
Diversamente, la Cassazione ritiene che la responsabilità del dottore commercialista presuppone la violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell’articolo 1176, secondo comma, e 2236 cod. civ., tenuto conto della natura e della portata dell’incarico conferito.
Qualora si tratti di attività di consulenza richiesta ad un dottore commercialista, il dovere di diligenza impone, tra gli altri, l’obbligo, non solo di dare tutte le informazioni che siano di utilità per il cliente e che rientrino nell’ambito della competenza del professionista (principio già affermato, sia pure con riferimento ad un avvocato, con sentenza 14597/04 e n. 24544/09 e, con riferimento ad un commercialista con sentenza 14639/15), ma anche di individuare le questioni che esulino da detto ambito.
Il professionista incaricato dovrà perciò informare il cliente dei limiti della propria competenza e fornire gli elementi ed i dati comunque nella sua conoscenza per consentire al cliente di prendere proprie autonome determinazioni, eventualmente rivolgendosi ad altro professionista indicato come competente.
La definizione dell’ampiezza di questo dovere di informazione e la valutazione della diligenza richiesta nell’adempimento presuppongono che siano, in concreto, individuati gli esatti termini dell’incarico conferito al dottore commercialista.
Nel momento in cui si ipotizzi – come ha fatto la Corte d’Appello – che lo stesso sia stato incaricato, se non della proposizione di un’impugnazione in Cassazione, ma comunque di fornire una vera e propria consulenza, sia pure di carattere tecnico e di prima informazione, a seguito dell’esito infausto per il contribuente di un ricorso dinanzi alla commissione tributaria regionale, è obbligo di diligenza connesso all’incarico di consulenza così conferito quello di informare il cliente non solo delle ragioni di natura giuridica o tecnico-contabile che stanno a fondamento della sentenza sfavorevole (indubbiamente rientranti nella competenza del dottore commercialista, in quanto soggetto abilitato al patrocinio dinanzi alle commissioni tributarie), ma anche dei rimedi astrattamente esperibili, pur se non praticabili dallo stesso professionista. In diritto – perciò – la sola circostanza, valorizzata dal giudice di secondo grado, che il dottore commercialista non sia abilitato a promuovere ricorso per Cassazione non lo esonera dal pagare il danno richiesto dal contribuente, se venisse dimostrato che quest’ultimo si sia rivolto a lui per conoscere i rimedi esperibili e non abbia trovato adeguata soddisfazione.
Per valutare in modo complessivo la vicenda, bisognerebbe conoscere quanto si siano detti quel contribuente e quel commercialista nel fantomatico momento della consegna del dispositivo della sentenza della CTR.
Gli scenari possono essere due:
- il primo, nel quale il commercialista professa la sua incompetenza ed invita il contribuente a rivolgersi ad un avvocato cassazionista;
- il secondo, nel quale il commercialista si riserva di analizzare l’atto e poi non ottemperi nei tempi necessari a promuovere opposizione.
Nella prima situazione nessun danno sarebbe stato cagionato; nella seconda il danno potrebbe essere imputato al commercialista.
Certamente è giusto tutelare il cliente laddove il danno sia una diretta conseguenza di una svista del commercialista.
Certamente, però, ci pare anche giusto rilevare come, proseguendo di questo passo, si dovrebbe innalzare il livello di difesa richiesto al professionista al punto tale da doversi premunire contro qualsiasi richiesta.
E, per chiudere con un sorriso, speriamo che il cliente non ci confidi di avere il mal di pancia. Non vorremmo essere ritenuti responsabili di non avergli consigliato di correre dal medico per una visita.
3 Settembre 2016 a 12:30
L’articolo in questione dimostra ancora una volta che il principio di competenza è di difficile applicazione, alimenta a dismisura il contenzioso, e non assicura equità fiscale in quanto si basa su valutazioni (di valori, di norme ecc..). E le valutazioni sono per natura incerte e soggette ad arbitrio.
Anche, e soprattutto, per i piccoli imprenditori il principio di competenza crea grosse difficoltà. Per esempio in questi giorni l’Agenzia delle entrate sta facendo controlli sulle ritenute subite dagli agenti di commercio. Potete immaginare quanto tempo stiamo perdendo (non solo il nostro studio, ma anche il funzionario dell’ADE) per fare il ragguaglio fra ritenute subite (per competenza) e ritenute certificate (per cassa).
Con questo cosa voglio dire?
Mi pare di capire che tutti (legislatore, professionisti, commentatori, cittadini ecc..) vogliono un fisco più semplice e comprensibile, ma pochi stanno proponendo, o almeno valutando, la seguente soluzione: l’adozione del PRINCIPIO DI CASSA anche per le imprese (per gli Agenti di commercio basarsi sulla competenza già ora suona come un’assurdità). Secondo il mio modestissimo parere, sarebbe davvero un grande passo avanti verso l’equità fiscale, e verso la concreta applicazione del principio costituzionale della “capacità contributiva”. Pagare le tasse su ciò che effettivamente mi è rimasto in tasca, sarebbe anche un forte deterrente per l’evasione fiscale di artigiani, commercianti e piccoli imprenditori (credo che la componente psicologica sia determinante in tema di evasione). Con norme che costringano i titolari di partita iva ad effettuare pagamenti di costi inerenti solo con strumenti tracciabili, pena l’indeducibilità del costo, credo si andrebbe davvero verso un fisco più semplice e, soprattutto, sfoltirebbe non di poco il lavoro dei controllori e delle Commissioni tributarie. Ritengo che i vantaggi per il sistema supererebbero di gran lunga gli svantaggi.
Non è certo questa la sede di analizzare le innumerevoli conseguenze che determinerebbe uno stravolgimento del genere, ma vi sarei grato se mi segnalate eventuali articoli della vostra rivista dove avete approfondito l’argomento. In mancanza apprezzerei un vostro intervento in proposito.
Cordiali saluti
Dott. Piero Ciampolini