Occultamento e distruzione di scritture contabili
di Luigi FerrajoliIn tema di occultamento o distruzione di documenti contabili, reato previsto e punito dall’art.10 D.Lgs. n.74/00, molto interessante appare la sentenza n. 19106 depositata in data 9 maggio 2016 dalla Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale.
Nel caso di specie, la Corte di Appello adita aveva confermato la sentenza emessa dal Giudice di prime cure, che aveva condannato i legali rappresentanti di due società in relazione al reato de quo.
A parere della difesa dell’imputato ricorrente, la Corte di Appello aveva ritenuto che fosse stata dimostrata la commissione del reato da parte degli imputati senza che fosse stata provata l’esistenza del documento contabile che si assumeva distrutto.
Nel motivo di impugnazione avanti la Suprema Corte, era stato dunque argomentato che non fosse sufficiente ad integrare il reato in questione la “mera mancata istituzione e tenuta delle scritture contabili che determina l’impossibilità della ricostruzione del volume di affari”.
Nella pronuncia in esame, il Giudice di legittimità ha affermato che il reato di occultamento o di distruzione di scritture contabili può essere provato anche mediante il reperimento di fatture presso la società fornitrice, anche se l’acquirente non è in grado di esibirle.
Sul punto, la Suprema Corte ha richiamato propria precedente giurisprudenza e, in particolare, due orientamenti. Il primo afferma che, al fine dell’integrazione del reato in parola, è sufficiente che la condotta dell’agente determini anche la sola impossibilità relativa ovvero una semplice difficoltà di ricostruzione del volume degli affari e dei redditi, derivante, appunto da detta omissione (Cass. n. 28656/09). A tale orientamento si è contrapposto un altro indirizzo più recente, condiviso dalla Corte di Cassazione nella sentenza in esame, secondo il quale la condotta del reato richiede un comportamento attivo e commissivo del contribuente (Cass. n. 11643/15).
Più specificamente, la Corte di Cassazione ha precisato che la norma di cui all’art.10 D.Lgs. n.74/00 prevede una “doppia alternativa condotta riferita ai documenti contabili”, ossia la distruzione e l’occultamento totale o parziale, un elemento psicologico manifestantesi nel dolo specifico di evasione propria o di terzi e un evento costitutivo, rappresentato dalla sopravvenuta impossibilità di ricostruire, mediante i documenti, i redditi o il volume degli affari al fine dell’imposta sul valore aggiunto.
La Suprema Corte ha quindi proseguito nella propria argomentazione affermando che il reato in oggetto si palesa a “condotta vincolata commissiva con un evento di danno”, che si rappresenta nella perdita della funzione descrittiva della documentazione contabile.
Ciò comporta che, per la configurabilità del delitto di cui si discute, non è sufficiente un semplice comportamento omissivo consistente nella mancata tenuta delle scritture contabili in modo che la ricostruzione della situazione contabile sia stata resa più difficoltosa, ma occorre altresì che vi sia stato un occultamento ovvero una distruzione delle scritture, ossia una condotta eminentemente commissiva.
Nel caso di specie, tenendo presente tale indirizzo, la Corte di Cassazione ha argomentato che il mancato rinvenimento della documentazione fiscale presso la società del ricorrente utilizzatrice delle fatture, fosse elemento di prova in ordine al loro occultamento o distruzione, in quanto detta documentazione era stata viceversa rinvenuta presso la società fornitrice.
A parere della Suprema Corte, dunque, la Corte di Appello aveva quindi correttamente motivato in relazione alla distruzione o occultamento dei documenti contabili con riferimento alle fatture passive di vendita, sia sotto il profilo dell’incidenza sulla ricostruzione dei redditi del destinatario delle stesse, sia sotto quello psicologico del dolo specifico di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto o di consentire l’evasione a terzi. Peraltro, ulteriore elemento a conferma dell’esistenza del dolo specifico consiste nel fatto che il ricorrente gestiva società inattive, prive non solo di documentazione contabile, come detto, ma anche di sede legale.
Proprio l’assenza della documentazione contabile, secondo la Corte di Cassazione, ha reso impossibile la ricostruzione del volume d’affari e consentito l’immissione sul mercato della merce a costo concorrenziale, grazie all’evasione delle imposte.
Il ricorso proposto dall’imputato è quindi stato dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza, con la conseguenza, tra l’altro, che non essendosi formato un valido rapporto di impugnazione, non era possibile rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p., cosicché è rimasta preclusa la dichiarazione di prescrizione del reato maturata dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello.