26 Febbraio 2018

Onere della prova nella frode carosello in presenza di indizi

di Marco Bargagli
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La frode carosello rappresenta uno dei fenomeni più insidiosi di evasione fiscale che, nello schema classico, si realizza mediante l’interposizione di società denominate “cartiere”.

La società cartiera opera come mero schermo giuridico, non versa le imposte dovute, è normalmente amministrata da prestanome, non istituisce la contabilità, non possiede un’idonea organizzazione di uomini e mezzi.

Ai fini penali – tributari l’articolo 2 D.Lgs. 74/2000 (rubricato “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), sanziona con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti indica, in una delle dichiarazioni relative a dette imposte, elementi passivi fittizi che consentono di ridurre la base imponibile.

In merito, per individuare la responsabilità penale dell’acquirente, riveste fondamentale importanza valutare concretamente il riparto dell’onere della prova tra l’Amministrazione finanziaria ed il contribuente, tenuto conto che il reato in rassegna prevede il dolo specifico di evasione.

Quindi, nelle ipotesi di utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti, la punibilità opera solo nei casi in cui venga accertata la consapevolezza del cessionario/acquirente di prendere parte ad un sistema evasivo.

Ai fini fiscali, occorre valutare anche i riverberi tributari sia con riferimento alle imposte sui redditi (deducibilità dei costi sostenuti), sia in materia di imposta sul valore aggiunto (detraibilità dell’imposta assolta sugli acquisti), in ragione dell’inesistenza oggettiva o soggettiva dell’operazione.

Infatti, come per le imposte dirette, anche ai fini Iva l’inesistenza della fattura può essere oggettiva, se documenta operazioni in realtà mai avvenute, in tutto o in parte, ovvero soggettiva, qualora l’operazione documentata sia in realtà intercorsa fra soggetti diversi da quelli risultanti dalla fattura medesima (Cfr. circolare 1/2008 del Comando Generale della Guardia di Finanza, volume 2, pagina n. 147).

In merito, la suprema Corte di Cassazione, sulla base di un costante orientamento (cfr. sentenze n. 10167 del 20.06.2012, n. 24426 del 30.10.2013 e n. 12503 del 22.05.2013) ha stabilito che, nell’ambito delle “frodi carosello”, sono deducibili i costi relativi a operazioni soggettivamente inesistenti anche quando l’acquirente è consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che non possiedono i requisiti di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, richiesti dal testo unico delle imposte sui redditi.

Di contro, l’indetraibilità dell’Iva esposta in fattura è subordinata alla prova che l’Amministrazione finanziaria deve fornire in ordine alla circostanza che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere – in ragione dell’esistenza di indizi idonei ad avvalorarne il sospetto – che tale operazione si iscriveva in un’evasione commessa dal fornitore o da un altro operatore a monte (cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 973 del 20.01.2016 e n. 9608 dell’11.05.2016).

Tale concetto è stato posto in evidenza anche nel recente Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, circolare n. 1/2018 del Comando Generale della Guardia di Finanza (cfr. volume III – parte V – capitolo 10, “Tassazione dei proventi illeciti e indeducibilità dei costi da reato”, pag. 328 e ss.).

Nel richiamato documento viene precisato che i verificatori fiscali, al fine di contestare l’indetraibilità dell’imposta, devono raccogliere “ogni evidenza utile a dimostrare, sotto il profilo soggettivo, la consapevolezza del cessionario circa l’esistenza di una frode o, quanto meno, a porre in evidenza l’assoluta negligenza da parte dello stesso, non avendo posto in essere alcuna misura per escludere la propria partecipazione a meccanismi fraudolenti”.

Di contro, qualora nel corso della verifica fiscale o di ogni altra attività di controllo venga accertata la presenza di fatture oggettivamente inesistenti, il citato documento di prassi ha specificato che:“laddove si contesti l’utilizzo di fatture attestanti l’esecuzione di operazioni in tutto o in parte mai avvenute, fatta salva l’indeducibilità dei relativi costi, non potrà essere sostenuta l’imponibilità, ai fini delle imposte sui redditi e dell’Irap, dei ricavi dichiarati e connessi alla vendita fittizia dei medesimi beni oggetto di acquisto simulato”, in linea con la disposizione contenuta nell’articolo 8, comma 2, D.L. 16/2012.

Sempre in tema di onere della prova e consapevolezza di partecipare ad una frode fiscale, è recentemente intervenuta la Corte di Cassazione, sezione civile, con le ordinanze n. 3473/18 e n. 3474/18 entrambe depositate in data 13 febbraio 2018.

In particolare, la questione risolta in sede di legittimità è nata in seguito al recupero a tassazione dell’Iva indebitamente detratta derivante dall’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.

Nel corso della verifica fiscale era stato constatato:

  • che le fatture erano state emesse da società cartiere, prive di organizzazione e di dipendenti;
  • che le società cedenti non avevano alcuna autonomia finanziaria ed in alcuni casi avevano anche praticato prezzi inferiori a quelli di mercato;
  • l’omesso versamento dell’Iva da parte del cedente.

In tale contesto, gli ermellini hanno affermato che l’Amministrazione finanziaria può ragionevolmente assolvere al suo onere probatorio anche mediante presunzioni ed altri elementi indiziari e, quindi, “non necessariamente con prova certa ed incontrovertibile, bensì con presunzioni semplici, purché dotate del requisito di gravità, precisione e concordanza, consistenti nella esposizione di elementi obiettivi tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sull’inesistenza sostanziale del contraente”.

Di conseguenza, tali “elementi indiziari”:

  • avrebbero dovuto indurre un normale operatore economico “eiusdem generis ac professionis”, utilizzando l’ordinaria diligenza, a sospettare della regolarità della operazione dovendo in tal caso considerarsi il soggetto passivo che “sapeva o avrebbe dovuto sapere” come “partecipante a tale frode, indipendentemente dalla circostanza che egli tragga o meno beneficio dalla rivendita dei beni;
  • riversano sul contribuente l’onere di provare di essersi trovato nella situazione di oggettiva inconoscibilità delle pregresse operazioni fraudolente intercorse tra il cedente ed i precedenti fornitori, ovvero, nonostante l’impiego della dovuta diligenza richiesta dalle specifiche modalità in cui si è svolta l’operazione contestata, di non essere stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all’operazione.

In definitiva, la suprema Corte di Cassazione ha pienamente confermato l’approccio ermeneutico consolidatosi nel tempo, evocando la responsabilità del cessionario solo nei casi in cui egli abbia partecipato fattivamente alla frode fiscale.

Di contro, utilizzando l’ordinaria diligenza, lo stesso contribuente potrà dimostrare di avere operato in totale buona fede, essendo del tutto estraneo alla fattispecie evasiva posta in essere.

 

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