Origine ed evoluzione del principio dell’incasso giuridico
di Stefano RossettiL’incasso giuridico è una fictio iuris, di matrice antielusiva, secondo cui la rinuncia ad un credito correlato a redditi tassati per cassa presuppone l’avvenuto incasso del credito e quindi l’obbligo di sottoporre a tassazione il relativo ammontare anche mediante applicazione di una ritenuta di imposta.
Tale principio è stato fatto proprio dall’Amministrazione finanziaria con la circolare 73/1994 e successivamente ribadito con la risoluzione 124/E/2017.
In sostanza, ad avviso dell’Amministrazione finanziaria, i redditi tassati secondo il principio di cassa permettono ai contribuenti di tenere condotte elusive volte a generare dei salti d’imposta inammissibili nel nostro ordinamento tributario.
Ciò avverrebbe ogniqualvolta un contribuente rinuncia ad un credito il cui incasso avrebbe generato un reddito tassato secondo il principio di cassa. In casi come questi l’Amministrazione finanziaria equipara l’atto dispositivo del credito (la rinuncia, o più propriamente, la remissione del debito ai sensi dell’articolo 1236 cod. civ.) all’incasso dello stesso.
La tesi erariale si fonda sulla finzione in base alla quale disporre del diritto di credito rinunciandovi significa disporre in via mediata del reddito che quel credito rappresenta. Ciò in considerazione del fatto che se il contribuente avesse incassato il credito e successivamente disposto della somma si sarebbe generato il presupposto impositivo.
Le principali casistiche a cui viene applicato il principio dell’incasso giuridico riguardano:
- i compensi amministratori e il trattamento di fine mandato imponibili ai sensi dell’articolo 50 Tuir (ovvero articolo 53 Tuir in caso di amministratore professionista);
- agli interessi attivi su finanziamento da parte dei soci persone fisiche (articolo 44 Tuir);
- i dividendi percepiti sia da persone fisiche (articolo 44 Tuir) sia da persone giuridiche (articolo 89 Tuir).
La tesi dell’incasso giuridico è stata criticata in dottrina in quanto si porrebbe in palese contrasto con i principi generali dell’ordinamento tributario (vedasi in particolare circolare Aidc 208/2018). In particolare, essa violerebbe i principi costituzionalmente sanciti della riserva di legge e della capacità contributiva, infatti:
- l’articolo 23 della Costituzione prevede che “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge” mentre la tesi dell’incasso giuridico trova la sua fonte in un documento di prassi. Sul punto la giurisprudenza di legittimità è monolitica nel ritenere che “l’Amministrazione finanziaria non ha poteri discrezionali nella determinazione delle imposte dovute e, di fronte alle norme tributarie, detta Amministrazione ed il contribuente si trovano su un piano di parità, per cui la c.d. interpretazione ministeriale, sia essa contenuta in circolari o in risoluzioni, non vincola né i contribuenti né i giudici, né costituisce fonte di diritto; gli atti ministeriali medesimi, quindi, possono dettare agli uffici subordinati criteri di comportamento nella concreta applicazione di norme di legge, ma non possono imporre ai contribuenti nessun adempimento non previsto dalla legge né, soprattutto, attribuire all’inadempimento del contribuente alle prescrizioni di detti atti un effetto non previsto da una norma di legge” (Cassazione n. 11931/1995, 14619/2000, n. 21154/2008, n. 5137/2014).
- il mancato incasso del credito non genera alcun presupposto impositivo se le norme contenute nel Tuir collegano la genesi dell’obbligazione tributaria al possesso di redditi in denaro. Il principio dell’incasso giuridico quindi si pone in contrasto con il disposto dell’articolo 1 Tuir, secondo cui il “presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’articolo 6” e di conseguenza con il principio di capacità contributiva ex articolo 53 Costituzione.
In merito a quest’ultimo aspetto, in dottrina è stato osservato che la tesi dell’incasso giuridico, oltre a non rispettare i principi di carattere costituzionale, si pone in contrasto anche con il dato letterale delle norme di diritto sostanziale contenute nel Tuir.
Il legislatore, a titolo esemplificativo, ha previsto che:
- i compensi nell’ambito del lavoro autonomo (articolo 54, comma 1, Tuir);
- i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente (articolo 52, comma 1, Tuir);
- i redditi di capitale (articolo 45 Tuir);
- i dividendi nell’ambito del reddito d’impresa (articolo 89 Tuir)
debbano essere “percepiti” per essere assoggettati ad imposizione, mentre, come abbiamo visto, in caso di rinuncia al credito il percepimento del reddito non si verifica.
Nonostante le argomentazioni addotte dalla dottrina, la giurisprudenza di legittimità, in linea generale, ha sposato la tesi erariale.
Da ultimo si sottolinea la sentenza n. 2057/2020 con cui la Corte di Cassazione ha ritenuto applicabile il principio dell’incasso giuridico alla rinuncia che una fondazione ha effettuato in relazione ad un credito per interessi derivanti da un rapporto di finanziamento in essere con la società partecipata.
Ad avviso della Suprema Corte, in una fattispecie come quella descritta:
- “appare corretto ritenere che la rinuncia del credito per interessi oggetto di causa da parte dei soci sia espressione della volontà di patrimonializzare la società e che, pertanto, non possa essere equiparata alla remissione di un debito da parte di un soggetto estraneo alla compagine sociale”;
- “la rinuncia presuppone il conseguimento del credito il cui importo, anche se non materialmente incassato, viene comunque “utilizzato”, sia pure con atto di disposizione avente natura di rinuncia. Altrimenti operando, si permetterebbe alla società di beneficiare di accantonamenti fiscalmente dedotti nel corso dei singoli periodi di imposta che non scontano alcuna imposizione fiscale, nonostante producano l’effetto ultimo di incrementare il costo della partecipazione e perciò di generare reddito”.