Pagare i dipendenti può essere reato?
di Mario Agostinelli
Il contribuente quando effettua il pagamento dei dipendenti deve dosare bene le proprie forze, in modo tale da ripartire le risorse finanziarie disponibili al fine di assicurare il pagamento delle ritenute fiscali. Questa è l’applicazione dei principi individuati dalla Suprema Corte, a Sezioni Unite (sentenza 28.01.2014, numero 3705), secondo la quale è obbligo del sostituto quello di ripartire le risorse esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da poter adempiere il proprio obbligo, anche se ciò dovesse comportare l’impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare (Sez. 3, n. 141 del 15/02/1996).
E, inoltre, quando l’imprenditore, in presenza di una situazione economica difficile, decida di dare la preferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti e di pretermettere il versamento delle ritenute, non può addurre a propria discolpa l’assenza dell’elemento psicologico del reato, ricorrendo in ogni caso il dolo generico.
Un’applicazione di principio che appare esatta, come l’esecuzione di un corretto compito di matematica, ma che forse trascura i più fondamentali principi della nostra Costituzione.
Il caso arrivato giudizio non era certo di facile soluzione, soprattutto dopo che, le stesse Sezioni unite, avevano chiarito, in 4 punti, l’esatto connotato applicativo della norma di cui all’articolo 10 bis del D.lgs.74/2000:
- l’elemento psicologico richiesto è solo il dolo generico, che coincide con la conoscenza e la consapevolezza di commettere la fattispecie delittuosa;
- il presupposto è costituito sia dalla erogazione di somme comportanti l’obbligo di effettuazione delle ritenute alla fonte e di versamento delle stesse all’erario, sia dal rilascio (al soggetto sostituito) di una certificazione attestante l’ammontare complessivo delle somme corrisposte e delle ritenute operate nell’anno precedente;
- la condotta omissiva si concretizza nel mancato versamento, per un ammontare superiore ad € 50.000,00 delle ritenute complessivamente operate nell’anno di imposta e risultanti dalla certificazione ai sostituiti;
- il termine per l’adempimento è individuato in quello previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, relativa all’anno precedente.
Il presupposto di reato, che si fonda su un comportamento dell’agente espressivo del generico dolo, non sussiste nella sola ipotesi fattuale per la quale l’agente abbia omesso il pagamento per una causa di forza maggiore, vale a dire per un evento che sia impeditivo dell’azione tutelata dalla norma, assolutamente non riconducibile e ricollegabile al comportamento del contribuente. Un fatto, quindi, completamente estraneo all’agente.
Tale non può essere la crisi dell’impresa, affermano i giudici delle leggi. E tale non può essere la scelta del contribuente di pagare i dipendenti, scelta che non è altrettanto meritevole di tutela di quella di pagare le ritenute. In sostanza una scelta, quella di pagare il lavoratore dipendente invece che le ritenute, da considerare imprudente e presupposto di reato. Ed allora, vale la massima delle Sezioni Unite per cui: “Il debito verso il fisco relativo al versamento delle ritenute è collegato con quello della erogazione degli emolumenti ai collaboratori, di modo che, ogni volta il sostituto d’imposta effettua tali erogazioni, insorge, a suo carico l’obbligo di accantonare le somme dovute all’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria. Non può essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non fa debitamente fronte alla esigenza predetta”.
Ma il caso in analisi introduce un altro argomento di valutazione nella scelta operata dal contribuente. Un contrasto tra un interesse pubblico, quello del pagamento delle tasse e, si badi bene, un altro interesse pubblico, la tutela del lavoro (così recita l’articolo 1 della carta Costituzionale).
La conclusione non è proprio semplice, ma la sentenza della suprema Corte evidenza che l’applicazione della norma di cui all’articolo 10 bis del D.Lgs. 74/2000, secondo i criteri individuati dai giudici delle leggi, può essere espressione di anomalie colossali ed indicativa di qualcosa che non va.