Le particolarità Iva nelle attività di e-commerce indiretto – I° parte
di Luca CaramaschiLa recente sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana (CTR Toscana n. 826/31/16) offre lo spunto per affrontare il tema della disciplina Iva applicabile alle attività di e-commerce indiretto. La vendita di beni materiali attraverso il canale telematico, infatti, rappresenta oggi una delle necessarie strategie che molte attività commerciali di tipo tradizionale devono approntare per moltiplicare e rafforzare i propri canali di vendita e, in taluni casi, per raggiungere mercati esteri sinora sconosciuti o poco praticabili per evidenti ragioni economiche.
La corretta identificazione di cosa sia un’attività di e-commerce indiretto (nei fatti, una evoluzione delle vendite per corrispondenza basate su cataloghi stampati in forma cartacea), tuttavia, deve partire da alcune preliminari considerazioni:
- la distinzione tra e-commerce diretto e indiretto;
- la qualificazione dell’attività di vendita on line come attività d’impresa.
In merito al primo punto, si intende attività di e-commerce diretto la cessione di beni virtuali o di servizi con modalità elettronica (siti internet, immagini, testi, informazioni, accesso a banche dati, eccetera), mentre per e-commerce indiretto deve intendersi la vendita di beni materiali (abbigliamento, telefonia, eccetera) mediante l’utilizzo della rete internet quale strumento “facilitatore” nella conclusione del contratto e che consente il pagamento del corrispettivo.
Una volta operata tale distinzione, il secondo elemento fondamentale da analizzare, al pari di ogni altra operazione per la quale si vuole stabilire l’inquadramento ai fini Iva, è individuare se l’operazione viene posta in essere tra soggetti passivi d’imposta (business to business) o nei confronti di soggetti privati (business to consumer). Detta distinzione assume ancor più importanza se si pensa che in relazione al commercio elettronico diretto è in vigore dal 1° gennaio 2015 una disciplina che ha visto modificarsi nei rapporti B2C (business to consumer) i criteri di territorialità ai fini Iva con conseguente nascita di un particolare regime (il MOSS) il cui scopo è quello di evitare all’operatore economico l’identificazione ai fini Iva nei vari Paesi comunitari dove avviene il consumo del servizio.
La seconda considerazione, invece, muove proprie le mosse dalla citata CTR Toscana 826/31/16, che risolve in favore del contribuente (un pensionato) il problema della qualificazione di un’attività di acquisto e vendita di bottiglie “mignon” realizzata su eBay, uno dei mercato online di maggior diffusione nel mondo. L’Agenzia delle entrate, infatti, aveva contestato al contribuente lo svolgimento di tale attività in forma d’impresa con conseguente accertamento delle corrispondenti imposte dirette e indirette. La CTR, confermando la sentenza di primo grado, invece, ha ritenuto che per qualificare un soggetto come imprenditore, occorre dare rilievo al cosiddetto “lucro soggettivo” e cioè la finalità perseguita dal soggetto nell’esercizio della sua attività. Nella sentenza in commento è stato appurato che le operazioni di acquisto e vendita delle bottiglie sono state poste in essere senza alcuna finalità speculativa (tipica, ad esempio, dei mercanti d’arte), essendosi limitato il pensionato ad acquistare i beni per tenerseli oppure per destinare il ricavato della vendita degli stessi per l’acquisto di nuove bottiglie in puro spirito collezionistico. Da questa pronuncia troveranno certamente conforto quanti, soprattutto giovani studenti, stanno utilizzando lo strumento del web per ampliare le loro opportunità di collezionismo (magliette, stemmi, fumetti, eccetera) e che per questo presentano sui loro conti correnti numerose transazioni finanziarie con controparti estere, avendo per questo il timore di doversi in qualche modo regolarizzare sotto il profilo fiscale. Laddove prevalga lo spirito collezionistico e non emergano elementi che facciamo pensare all’esistenza di una vera e propria organizzazione, tali soggetti non dovranno ritenersi assoggettati ai conseguenti obblighi di natura contabile e fiscale.
Detto questo, e quindi dopo aver correttamente definito che al contrario si è di fronte a una attività di commercio elettronico indiretto organizzata in forma imprenditoriale, andiamo a vedere quali sono le corrispondenti regole previste ai fini Iva.
Per quanto attiene alle regole di fatturazione delle richiamate operazioni, da considerarsi cessioni di beni a tutti gli effetti, il commercio elettronico “indiretto” è in particolare assimilato alle vendite per corrispondenza e, quindi, ai fini dell’obbligo di certificazione vale la regola sancita dall’articolo 22, comma 1, n. 1) del D.P.R. 633/1972 secondo la quale “L’emissione della fattura non è obbligatoria, se non è’ richiesta dal cliente non oltre il momento di effettuazione dell’operazione: 1) per le cessioni di beni effettuate da commercianti al minuto autorizzati in locali aperti al pubblico, in spacci interni, mediante apparecchi di distribuzione automatica, per corrispondenza, a domicilio o in forma ambulante …”.
In relazione alle medesime operazioni, inoltre, come stabilito dall’articolo 2, comma 1, lettera oo) del regolamento di semplificazione introdotto con D.P.R. 696/1996, qualificabili ai fini Iva come interne, non sussiste nemmeno obbligo di emettere ricevuta/scontrino fiscale.
Assodato, pertanto, che nel caso di vendita di beni materiali online non sussiste obbligo di certificazione delle operazioni (né fattura, né scontrino o ricevuta fiscale), a meno che la fattura venga richiesta dal cliente, restano tuttavia fermi i seguenti obblighi:
- l’annotazione dell’operazione di vendita sul registro dei corrispettivi;
- l’istituzione, insieme al registro dei corrispettivi, del registro delle fatture emesse di cui all’articolo 23 del D.P.R. 633/1972 nel caso in cui sia stata emessa fattura;
- l’obbligo di accompagnare la merce venduta con documento di trasporto.
Nonostante non sussista obbligo di fatturazione, chi esercita l’attività di vendita di beni online deve tuttavia tenere conto della possibilità che il contribuente restituisca la merce ricevuta (c.d. resi). Mancando in tale caso la fattura, il venditore non può emettere la nota di variazione ai sensi dell’articolo 26 D.P.R. 633/1972, poiché manca il documento di riferimento da rettificare. In tali situazioni l’Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 274/E/2009 ha ritenuto che per recuperare l’Iva sui resi di merce nell’ambito delle attività di commercio elettronico di beni che non comportino l’obbligo di emissione di fattura, scontrino o ricevuta fiscale, il contribuente deve fornire la documentazione che consenta di individuare gli elementi necessari a correlare la restituzione al medesimo bene risultante dal documento – che la società è tenuta a conservare – probante l’acquisto originario, quali:
- le generalità del soggetto acquirente;
- l’ammontare del prezzo rimborsato;
- il “codice” dell’articolo oggetto di restituzione;
- il “codice di reso” (quest’ultimo deve essere riportato su ogni documento emesso per certificare il rimborso).
È altresì necessario che dalle risultanze delle scritture ausiliare di magazzino, correttamente tenute, sia possibile verificare la movimentazione fisica del bene reinserito nel circuito di vendita (risoluzione n. 219/E/2003). Nella stessa risoluzione n. 274/E/2009, l’Amministrazione finanziaria ribadisce inoltre che la nota di variazione può essere emessa solo a fronte di cessione di beni per le quali si stata emessa la fattura; mentre per le operazioni soggette al rilascio dello scontrino/ricevuta fiscale è necessario rinviare alle disposizioni di cui all’articolo 12 del D.M. 23/3/1983, che prevede, tra l’altro, l’indicazione nello scontrino fiscale di “eventuali rimborsi per restituzione di vendite o imballaggi cauzionati” (risoluzione n. 86/E/2007).
Quanto detto fin qui, vale per le vendite che avvengono tra cedente e cessionario italiani. Per quanto riguarda, invece, le regole Iva inerenti i rapporti con soggetti esteri si rimanda ad un successivo contributo nel quale verranno evidenziate le particolari regole applicabili.
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4 Ottobre 2016 a 17:29
E’ roba da matti! Ma che problema reca all’Erario o alle istituzioni comunitarie se un soggetto rimane iscritto al Vies? Possibile che debbano sempre complicare la vita alle piccole imprese e ai loro consulenti? Addirittura c’è anche la corveè di andare all’Agenzia Entrate (a 30 km di distanza dallo Studio) a dimostrare a che cosa è dovuta l’inattività (che tra l’altro è anche una probatio diabolica)! Poi moltiplica il tutto per 10, 15 clienti: un lavoro pesante, improduttivo ed inutile. Ma chi è che fa questi provvedimenti, il marchese De Sade? Possibile che nessuno del vertice nazionale dei commercialisti dice mai qualcosa?