Passaggio generazione studio professionale agli eredi che non proseguono l’attività: incoerenze fiscali
di Luciano SorgatoIl regime fiscale neutro, previsto per la circolazione dei compendi patrimoniali ausiliari l’attività artistica e professionale svolta in forma individuale, viene previsto anche in ordine al trasferimento per causa di morte o per atto gratuito (articolo 177-bis, comma 2, lettera d), Tuir). La norma ricalca l’articolo 58, Tuir, a mente del quale: “Il trasferimento di azienda per causa di morte o per atto gratuito non costituisce realizzo di plusvalenze dell’azienda stessa; l’azienda è assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa”.
Ma, mentre nel caso della vicenda circolatoria dell’azienda, l’articolo 58, Tuir, viene raccordato all’articolo 67, comma 1, lettera h-bis), Tuir, a mente del quale “costituiscono redditi diversi le plusvalenze realizzate in caso di cessione, anche parziale, delle aziende acquisite ai sensi dell’art. 58 Tuir”, il citato articolo 177-bis, comma 2, lettera d), Tuir, è, invece, rimasto legislativamente disancorato da qualsiasi ulteriore prescrizione normativa capace di chiudere i varchi impositivi nel caso il dante causa (l’erede o il donatario) non intenda proseguire l’attività artistica/professionale. Anche se lo studio professionale riassume un modulo organizzato, caratterizzato da molte delle sinergie operative che contraddistinguono l’azienda (e in virtù delle quali si presta alle complessive medesime forme di riorganizzazione dell’impresa) esso non riassume, in virtù di una tradizione giuridica storica, l’identità di azienda, ai sensi dell’articolo 2555, cod. civ., per cui non appare lecito raccordare alla cessione dello studio professionale la disciplina fiscale di chiusura dell’articolo 67, comma 1, lettera h-bis), Tuir.
Il nuovo articolo 177-bis, Tuir, delimita il regolamento fiscale alle sole cessioni a titolo gratuito e al passaggio generazionale dello studio professionale, disponendone la neutralità degli effetti traslativi, dando all’evidenza per scontato la prosecuzione dell’attività da parte dell’avente causa, con il ripristino del corrispondente regime fiscale del reddito di lavoro autonomo. Tale prospettiva non è, però, per nulla scontata, per cui, nel caso di cessione dello studio professionale, il vuoto normativo non appare colmabile con il ricorso all’analogia e con il raccordo alla cessione dell’azienda, trovando essa, per chi scrive, come già rappresentato in altro scritto relativo all’affitto dello studio professionale, irriducibile ostruzione nel costituzionale principio della riserva di legge (articolo 23, Costituzione), che subordina la prestazione patrimoniale alla previsione di una specifica legge di solo rango primario. Poco coerente con la stessa evoluzione legislativa non potrebbe non apparire anche il ripristino delle vecchie tesi – intentate per sopperire al vuoto impositivo in ordine alla cessione della clientela e degli altri beni immateriali – fondate sul raccordo con le fattispecie dei redditi diversi enunciate alla lettera l), dell’articolo 67, Tuir, ossia sull’assunzione di obbligazioni di fare, non fare o di permettere. Occorre, pertanto, un intervento correttivo del Legislatore che, in aderenza al prisma costituzionale di presidio dell’obbligazione tributaria, disciplini il regime fiscale di cessione dello studio professionale da parte dell’avente causa che non intende proseguire l’attività, attraverso una previsione normativa strutturalmente ricalcante quella dell’articolo 67, comma 1, lettera h), Tuir, interdicendo, in tal modo, sviluppi interpretativi da parte dell’Amministrazione finanziaria e della giurisprudenza tributaria che, allo scopo di salvaguardare il diritto erariale, rischiano, poi, l’effetto ben più grave, di compromettere i fondamenti di sistema ai quali vanno raccordati i canoni dell’interpretazione nella risoluzione delle controversie in materia fiscale. Sforzature interpretative che, lungi dall’arrestare i loro effetti alla singola controversia, rischiano di minare la struttura portante del diritto tributario, portandolo ad una sempre più pesante e caotica deriva ermeneutica, che è quella che poi inficia l’operatività nel concreto dell’attuale legislazione fiscale.
Ma analogo vuoto normativo è dato rinvenire anche in materia di Iva, in caso di decesso del professionista/artista. Mentre, infatti, in caso di decesso dell’imprenditore, sia nell’Iva e sia nelle imposte sui redditi, il Legislatore ha nel tempo disciplinato fattispecie impositive idonee a chiudere i salti d’imposta, uniformando il trattamento fiscale degli atti di consumo e di dismissione per scopi estranei all’esercizio dell’impresa, in corso d’esercizio d’impresa, con quello degli atti di liquidazione dell’azienda in caso di morte dell’imprenditore, nel caso del professionista, alla rilevanza impositiva degli atti di autoconsumo o per scopi estranei all’esercizio dell’arte o della professione in corso d’attività, non è stata legislativamente prevista alcuna rilevanza impositiva per gli atti liquidatori della dotazione patrimoniale del professionista deceduto, nonostante il modulo organizzativo-patrimoniale dell’esercente un’arte o una professione possa raggiungere dimensioni prossime a quelle di un’azienda. Il comma 2, dell’articolo 35-bis, D.P.R. 633/1972, nel riferire testualmente “Resta ferma la disciplina stabilita dal presente decreto per le operazioni effettuate, anche ai fini della liquidazione dell’azienda, dagli eredi dell’imprenditore”, limita l’ultrattività della soggettività tributaria del de cuius al solo imprenditore deceduto, omettendo ogni riferimento all’esercente l’arte o professione.
Invalicabili appaiono essere i rinvii legislativi all’azienda (e agli eredi dell’imprenditore) e inutilizzabile a tale scopo è anche il comma 1, dell’articolo 35-bis in esame, dal momento che l’obbligo dell’adempimento in esso previsto è limitato alle sole operazioni già effettuate dal contribuente per le quali, semmai, non si è ancora verificata la sola esigibilità dell’imposta.
Il comma 2, dell’articolo 35-bis, si è reso necessario per evitare il salto d’imposta, in ordine a tutti i rapporti patrimoniali che ordinariamente attengono alla liquidazione dell’azienda. Con il decesso dell’imprenditore e la naturale estinzione del suo status fiscale, senza l’espediente legislativo della sua ultrattività rispetto alla morte, la disciplina Iva non avrebbe potuto operare, in quanto menomata nella sua imprescindibile struttura ternaria di presupposti (soggettivo, oggettivo e territoriale). La comunione ereditaria, infatti, salvo che non intraprenda un’attività d’impresa, è sprovvista dello status di imprenditore. L’ultrattività dello status passivo ed il mantenimento della partiva Iva dell’imprenditore deceduto, per tutte le operazioni di liquidazione dell’azienda, hanno costituito il raccordo legislativo tra il modello comunitario dell’Iva e la chiusura del ciclo economico dei beni dell’azienda.
Nell’Iva, il Legislatore non dispone di alternativi scenari impositivi cui poter far ricorso, come invece dispone nel comparto delle imposte sui redditi, dove la coesistenza nel Tuir dei redditi diversi e del reddito d’impresa, consente al Legislatore di disciplinare diversamente la chiusura fiscale dei beni d’impresa. Nel Tuir, il Legislatore ha potuto agevolmente prevedere la chiusura degli obblighi impositivi dell’azienda caduta in successione nei redditi diversi, all’articolo 67, comma 1, lettera h-bis), Tuir, risolvendo in tal modo la mancanza dello status di imprenditori in capo agli eredi.
Con il comma 2, dell’articolo 35-bis, D.P.R. 633/1972, e con la specifica previsione di perpetuazione della partita Iva del de cuius, per gli adempimenti fiscali relativi alle operazioni imponibili connesse alla chiusura del ciclo economico dell’azienda, il Legislatore ha potuto evitare ogni salto d’imposta, ma tale razionale chiusura non è stata (e tuttora non è prevista) per l’analoga liquidazione della dotazione patrimoniale del professionista, nonostante essa possa raggiungere forme di complessità del tutto ricalcanti quelle dell’azienda. Non è neppure possibile (e per comune giudizio della dottrina) raccordare il decesso del professionista alla destinazione a finalità estranea all’esercizio dell’arte o della professione, anche se determinata da cessazione dell’attività, dal momento che la configurazione “dell’atto di destinazione” richiede una precisa dinamica decisoria del contribuente, per cui, senza il personale atto di volontà del professionista, non è possibile alcuna ricongiunzione con l’articolo 2, comma 1, punto 5, Decreto Iva. In conclusione, allo stato attuale della legislazione, senza un intervento di correzione ricalcante quello previsto nel caso di decesso dell’imprenditore è, quindi, impossibile preservare dal salto d’imposta le operazioni di liquidazione del patrimonio del professionista deceduto.





