18 Febbraio 2015

Per l’induttivo possono utilizzarsi anche le fatture oggetto di sequestro

di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
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La Corte di Cassazione con la sentenza n. 1951 depositata il 4 febbraio 2015 torna ad esprimersi sul delicato tema dell’accertamento induttivo puro, sottolineando come al ricorrere del presupposti normativi l’Amministrazione finanziaria sia autorizzata ad espletare tale tipologia di accertamento, fondandosi su qualsiasi informazione comunque ottenuta come, nel caso analizzato, il ricorso a delle fatture emesse oggetto di sequestro penale.

La morale è sempre la stessa: quando il contribuente è del tutto inattendibile la strada delle ricostruzione induttiva è spianata. Dalla motivazione della sentenza n. 1951 in commento è possibile derivare quante violazioni siano state commesse, dalla mancata presentazione delle dichiarazioni dei redditi alla mancata regolare tenuta delle scritture contabili, concretizzandosi l’impossibilità di acquisire qualsiasi tipologia di documentazione di natura contabile e/o amministrativa in grado di consentire l’analisi della posizione del contribuente.

In ciò peraltro trova compiuta definizione la distinzione tra l’accertamento induttivo puro e l’accertamento c.d. analitico induttivo. Mentre nella prima ipotesi i dati risultanti dalle scritture contabili sono completamente inattendibili, nel secondo caso si è in presenza di lacune parziali, tanto che a parere della Suprema Corte “(…) la incompletezza, falsità o inesattezza degli elementi indicati non è tale da consentire di prescindere dalle scritture contabili, le cui lacune possono essere colmate dall’ufficio accertatore utilizzando anche presunzioni semplici …. rispondenti ai requisiti previsti dall’articolo 2729 del codice civile, per dimostrare l’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, ovvero l’inesistenza di componenti negativi dichiarati”. Tale comportamento invece non può essere assunto nelle casistiche che conducono all’accertamento induttivo puro, posto che le omissioni e le false indicazioni sono talmente gravi, numerose e ripetute da inficiare radicalmente l’attendibilità e, di conseguenza, l’utilizzabilità dei dati contabili, magari anche in apparenza regolari. Secondo i giudici di piazza Cavour in tale ipotesi l’Amministrazione finanziaria “(…) può prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari (…)”.

Ne consegue la conferma della legittimità dell’accertamento induttivo puro e l’utilizzabilità ai fini della determinazione di maggiori ricavi di qualsiasi informazione, dato o notizia comunque raccolti o venuti a conoscenza, compresi il volume d’affari dichiarato dal contribuente (nel caso de quo, desumibile dalle fatture emesse oggetto di sequestro penale), oppure, ipotesi classica, la redditività media del settore specifico in cui opera l’impresa sottoposta ad accertamento.

Sul tema è fondamentale poi una riflessione: la sentenza n. 1951/2015, seppur tra le righe, esplicita che l’accertamento induttivo è utilizzabile anche quando la contabilità è apparentemente corretta, ma l’inattendibilità del contribuente è comunque palese. La casistica frequente in tale direzione è rappresentata dal comportamento “antieconomico” assunto nella conduzione dell’azienda, in contrasto con i canoni classici dell’attività imprenditoriale. In tale direzione appare utile richiamare la sentenza n. 1839 depositata in cancelleria il 29.01.2014, con cui la suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, ritenendo valido l’accertamento induttivo effettuato, fondato principalmente sul riscontro dell’antieconomicità dei risultati aziendali raggiunti, manifestati da un ricarico praticamente irrisorio nell’attività di riferimento, pari al 9,78% (settore della vendita a dettaglio dell’abbigliamento).

La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, in tal modo, tra l’altro, motiva la sua decisione: “Questa Corte ha più volte affermato (…) che una volta contestata l’antieconomicità (…) poiché assolutamente contraria ai canoni dell’economia aziendale, incombe su quest’ultimo (ossia il contribuente), l’onere di fornire al riguardo le necessarie spiegazioni. In difetto, sarà pienamente legittimo il ricorso all’accertamento induttivo (…)”. Ed ancora: “E neppure tale potere di accertamento potrebbe considerarsi impedito dalla regolarità della contabilità (…) che non può costituire, a fronte di una condotta antieconomica (…) neppure una valida prova contraria (…)”. Al che è ritenuto corretto l’accertamento operato, che ha determinato “(…) in assenza di elementi di segno contrario forniti (…) un ricarico nella misura del 40%, secondo la media aritmetica semplice”.

Dal che l’ovvia conclusione: non sono soltanto le palesi anomalie contabili o addirittura le omesse dichiarazioni a consentire il ricorso all’accertamento induttivo, ma è la complessiva posizione del contribuente che deve essere sempre attendibile nelle sue scelte e nei comportamenti e risultati raggiunti, non potendo rappresentare un baluardo efficace la mera regolarità delle scritture contabili.