Permute Iva: dal rilievo a Facebook partirà un terremoto?
di Roberto CurcuAd 870 milioni di euro ammonterebbe l’Iva evasa da Meta (Facebook), secondo la procura della Repubblica. Tale rilievo, secondo l’accusa, riguarderebbe l’esistenza di una permuta tra il servizio che offre Facebook ai propri clienti, e quanto l’utente del social network dà in cambio, e cioè la possibilità di utilizzare i propri dati personali; si sa, infatti, che il guadagno del social network deriva dal fatto di poter vendere pubblicità mirata, e quindi a più alto valore aggiunto, e ciò è reso possibile dall’acquisizione che è stata fatta di dati personali, quali usi, luoghi, preferenze, ecc…
Da quanto si apprende dalle informazioni della stampa, la procura della repubblica ritiene che gli utenti che hanno un profilo Facebook hanno acconsentito a cedere i loro dati personali, ed hanno attribuito un valore a tali dati di quasi 4 miliardi di euro.
Tale valore, sarebbe il corrispettivo “incassato” da Facebook per il proprio servizio di offerta del social network, con la conseguenza che tale servizio non era più da considerare gratuito, ma oneroso, con quindi il mancato versamento dell’Iva.
In sostanza, è stata ravvisata una permuta tra la cessione dei dati da parte degli utenti, ed il servizio offerto da Facebook.
Ciò preoccuperà per due cose: la prima, è che poi non vadano a contestare la percezione di redditi diversi in capo agli utenti che hanno ceduto a titolo oneroso i loro dati. La seconda, è che tale rilievo non riguardi tutto il comparto web, e non solo.
Dirò che non sono un esperto di tecnologie, social network e via dicendo, ma credo che ogni volta che accediamo a dei contenuti gratuiti su internet, acconsentendo ai cosiddetti cookies, stiamo di fatto permettendo che il possessore dei cookies entri in possesso di nostri dati ed in particolare di quelli di navigazione (quali siti web uno legge).
Acconsentendo ad esempio all’uso di cookies di terze parti, si permette che i dati della propria navigazione entrino in possesso di soggetti diversi da colui che gestisce il sito che si sta visitando.
Se infatti per molti anni l’utilizzo dei cookies non è stato regolamentato, ed è stato considerato una minaccia per la privacy, oggi la legislazione europea regolamenta la cosa, e quindi certe volte, per accedere a delle informazioni sul web, accettiamo di “cedere” dei dati personali; di fatto è uno dei modi che permette al possessore del sito che offre servizi gratuiti di campare.
Immaginando che si possa per un attimo sostenere che il rilievo abbia un fondamento, la domanda che sorgerebbe spontanea sarebbe: quale deve essere il “valore normale” attribuito dall’utente alla cessione dei suoi dati personali? Come è arrivata la procura ad un dato di 4 miliardi di euro?
Personalmente, se cerco su internet qualcosa che voglio acquistare, sono contento di essere profilato per ricevere pubblicità mirate e quindi non attribuisco nessun valore economico al dato che cedo: anzi. Se invece faccio altre ricerche, tramite un account dedicato, magari su sistema linux virtualizzato ed in VPN, fornisco dei dati che per il ricevente non hanno alcuna utilità.
La ulteriore cosa che probabilmente preoccuperà il lettore, è che la maggior parte delle operazioni gratuite che vengono poste in essere, anche al di fuori del web, è a fronte di aspettative di ritorno economico (dai servizi omaggio ai clienti, agli ingressi gratuiti in discoteca, ai prosecchi da campagna elettorale delle regioni del nord-est offerti dai politici di professione). Possibile che si debba ogni volta valorizzare il valore teorico dell’aspettativa di una gratuità e fatturare ciò?
La questione è oggetto di discussione a livello europeo.
Ancora nel 2018 il Governo tedesco si pose questa domanda, ed interpellò la Commissione europea per avere un parere, reso poi attraverso un working paper; l’opinione espressa dalla Commissione Europea nei working paper non è certamente vincolante, e probabilmente non è nemmeno condivisa da tutti i Paesi membri. Tuttavia, la Commissione ha evidenziato che, affinché una prestazione di servizi possa considerarsi “a titolo oneroso”, non è sufficiente che ciò che viene ricevuto in cambio abbia un valore economico, ma deve esistere un nesso legale tra le due cose; per farlo, cita la Sentenza della Corte di Giustizia C-16/93 dove si dice che il suonatore stradale non deve assoggettare ad Iva le offerte che riceve, in quanto manca questa correlazione.
Viene citata poi la sentenza C-246/08, dove la Corte ritiene che manchi la correlazione tra un servizio legale ed un contributo che il beneficiario di tale assistenza legale versa in proporzione al suo reddito.
Alla stessa conclusione si giunge con la Sentenza C-11/15 per una radio finanziata da un canone legale obbligatorio, posto che i possessori delle radio potrebbero non ascoltare proprio il servizio di radiodiffusione pubblica.
Nella Causa C-432/15, infine, non si ravvisa una permuta tra chi fa partecipare il cavallo ad una gara ippica e colui che organizza la gara, e magari paga un premio al possessore del cavallo vincitore, posto che “il carattere incerto della stessa esistenza di un compenso spezza il nesso diretto tra il servizio fornito al destinatario ed il compenso ricevuto”.