30 Novembre 2016

Plafond Iva per gli appalti immobiliari

di Sandro Cerato - Direttore Scientifico del Centro Studi Tributari
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Allo scopo di evitare ingenti posizioni creditorie Iva, il soggetto passivo che nel corso dell’anno solare precedente, ovvero nei dodici mesi precedenti, realizza un volume di operazioni non imponibili con l’estero (esportazioni, cessioni intracomunitarie, ecc.) superiore al 10% del volume d’affari, assume la qualifica di esportatore abituale e può nell’anno successivo acquistare beni e servizi senza applicazione dell’Iva in misura pari al volume di operazioni con l’estero effettuato nell’anno precedente (cd. plafond disponibile).

In merito alle modalità di “spendita” del plafond, l’Amministrazione, con la C.M. 145/1998, aveva espressamente vietato l’utilizzo del plafond “per l’acquisizione di fabbricati, in dipendenza di contratti di appalto avente per oggetto la loro costruzione o di leasing; e ciò in quanto, ancorché la disposizione di cui alla lettera c) dell’articolo 8 del D.P.R. n. 633 escluda espressamente dal beneficio solo le cessioni di fabbricati, l’esclusione è evidentemente da estendere a tali modalità di acquisizione dei fabbricati stessi, che realizzano un effetto equivalente”.

Con riferimento ai fabbricati acquisiti in forza di un contratto di appalto, conformemente ai “principi” espressi nelle commentate sentenze relative ai contratti di leasing, la Corte di Cassazione (sentenza 15.4.2016, n. 7504) ha disconosciuto la tesi del Fisco che aveva escluso, nel caso di specie, l’applicabilità della disciplina del plafond, ritenendo che la realizzazione del fabbricato avesse solamente la veste formale dell’appalto, ma che in realtà dovesse qualificarsi, ai fini Iva, come una “cessione di beni.  La tesi dell’Agenzia delle Entrate è motivata dal fatto che la definizione comunitaria di “cessione di beni”, ovverosia “il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario” (articolo 14. par. 1, della direttiva 2006/112/CE), “porta a ritenere che vi rientrino tutti gli atti che comportano come effetto giuridico un trasferimento della proprietà dei beni a titolo oneroso”, come appunto la fattispecie del contratto d’appalto per la realizzazione di un fabbricato.  Questa precisazione risulterebbe avvalorata, a livello comunitario, anche dalla numerosa giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea che “considera rientrante nella nozione di “cessione di beni” ai fini Iva qualsiasi operazione di “trasferimento” di un bene materiale effettuata da una parte, che autorizza l’altra parte a disporre di tale bene come se ne fosse il proprietario” (C. Giust. 14.7.2005, C-435/03, British American Tobacco e Newman Shipping; C. Giust. 12.1.2006, C-354/03, 355/03 e 484/03, Optigen; C. Giust. 21.2.2006, C-255/02, Halifax; C. Giust. 3.6.2010, C-237/09, De Fruytier; C. Giust. 18.7.2013, C-78/12, Evita – K; C. Giust. 21.11.2013, C-494/12, Dixons Retail pic).

Di opinione difforme, invece, la giurisprudenza italiana in considerazione del fatto che  “non ha trovato seguito nell’ordinamento nazionale dell’imposta” il più ampio concetto di cessione previsto a livello comunitario che include nel novero delle operazioni costituenti cessione di beni “anche operazioni prive della caratteristica dello scambio di un bene verso un corrispettivo, quali a) la consegna di un lavoro eseguito in base ad un contratto d’opera”, nonché b)  la consegna di taluni lavori immobiliari”. In virtù di ciò, secondo i giudici della Suprema Corte, occorre riconoscere legittimità giuridica soltanto  alla definizione interna di “cessione di beni” di cui all’articolo 2 del D.P.R. 633/1972 (“atti a titolo oneroso che importano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento di beni di ogni genere”) e alla  nozione di “prestazione di servizi”, recata dall’articolo 3 del D.P.R. 633/1972, secondo cui “costituiscono prestazioni di servizio le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte“.

Conseguentemente, non può essere posto alcun dubbio in merito alla “classificazione” del contratto d’appalto come prestazione di servizi atteso che il citato articolo 3 del D.P.R. 633/1972 lo cita espressamente e, quindi,  “ è agevole ritrarre la conclusione che, se per l’ordinamento interno, da un lato, non costituiscono cessioni gli acquisti a titolo originario e, dall’altro, rientrano nel concetto di prestazioni di servizi le operazioni che consistono nell’esecuzione di un lavoro, l’appalto che abbia ad oggetto la realizzazione di un opificio industriale non costituisca cessione in quanto l’acquisizione avviene a titolo originario ed è diretta conseguenza dell’attività lavorativa dell’appaltatore e qualora, sia, come nella specie, eseguito a beneficio di un committente che rivesta la qualifica di esportatore abituale, sia esente da imposizione a mente dell’articolo 8, comma primo, lett. c), D.P.R. 633/1972 (Cassazione sentenza 15.4.2016, n. 7504).

 

 

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