L’Agenzia delle Entrate ha impugnato in Cassazione la pronuncia di secondo grado deducendo la violazione dei principi in materia di cessazione della materia del contendere statuiti dall’articolo 46 del D.Lgs. 546/1992 nella parte in cui prescrive che: “Il giudizio si estingue, in tutto o in parte, nei casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge e in ogni altro caso di cessazione della materia del contendere”, nonché dall’articolo 100 c.p.c., a mente del quale: “Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse”.
In particolare, l’Ufficio eccepiva la circostanza secondo la quale una volta annullato il provvedimento impositivo il giudice dell’appello non avrebbe potuto esprimersi essendo oramai venuto meno l’interesse della parte contribuente all’ottenimento di una pronuncia.
In particolare, rileva la Corte: “L’eliminazione dal mondo giuridico, sia pure per un non meglio specificato errore tecnico dell’avviso impugnato, comporta che la prosecuzione del processo non possa produrre per i contribuenti alcun utile risultato ulteriore, essendo incompatibili col giudizio tributario pronunce di mero accertamento dell’illegittimità della pretesa impositiva già esercitata (tra varie, Cass. n. 4744/06, secondo cui non osta l’eventualità – nella specie solo prospettata – di una successiva rimozione dell’annullamento in autotutela, nonché n. 19947/10, che ha affermato l’applicabilità del D.Lgs. 546/1992, articolo 46, anche qualora l’atto impugnato, benché annullato in autotutela, sia sostituito con altro atto identico). Nè tale opzione vulnera il diritto di difesa del contribuente, che la giurisprudenza di questa Corte identifica come limite all’esercizio del potere di autotutela (vedi, fra varie, Cass. n. 7335/10 e n. 14219/15): se è vero che l’esercizio del potere di autotutela non implica la consumazione del potere impositivo, sicchè, rimosso con effetti ex tunc l’atto di accertamento illegittimo o infondato, l’amministrazione finanziaria è tenuta all’esercizio della potestà impositiva, ove ne sussistano i presupposti, vero è altresì che il contribuente potrà impugnare con pienezza di tutela l’atto col quale sarà stata esercitata la pretesa”.
Sebbene la statuizione della Corte sia giuridicamente corretta in punto di individuazione dell’operatività dei principi sulla cessazione della materia del contendere, non si condivide la pronuncia in punto di spese della lite relativamente alle quali la Suprema Corte ha disposto la compensazione in ragione di una generica “particolarità della controversia”.
Si ritiene, al contrario, che nella fattispecie sussistessero tutti gli elementi per rilevare la soccombenza dell’Ente impostore, atteso che la cessazione della materia del contendere, intervenuta solamente in grado di appello, sia dovuta unicamente al comportamento dell’Amministrazione finanziaria che si è avveduta in ritardo dell’erroneità dell’atto impositivo emesso, costringendo il contribuente a promuovere ben due gradi di giudizio.
Si ritiene che nella fattispecie – stante anche la compensazione delle spese del giudizio – sarebbe proponibile un’azione di risarcimento del danno per il riconoscimento oltre che delle spese vive sostenute per il contenzioso anche dell’eventuale danno patrimoniale eventualmente generato dallo smobilizzo di risorse economiche per fronteggiare la pretesa in via provvisoria avanzata dall’Ufficio.
Per approfondire questioni attinenti all’articolo vi raccomandiamo il seguente corso: