Prezzi di trasferimento infragruppo e onere della prova nella recente giurisprudenza
di Marco BargagliIl fenomeno conosciuto tra gli addetti ai lavori come transfer pricing si identifica come quella pratica commerciale attraverso la quale si realizza un trasferimento di quote di reddito tra imprese consociate, attuato mediante l’effettuazione di cessioni di beni o prestazioni di servizi ad un valore diverso da quello che sarebbe stato pattuito tra soggetti o entità indipendenti.
La manipolazione dei prezzi di trasferimento infragruppo ha la finalità di ottenere un risparmio fiscale e trova il suo naturale presupposto nella circostanza che l’impresa del gruppo destinataria di maggiori utili beneficia di un trattamento tributario più favorevole rispetto a quella originariamente titolare del reddito medesimo.
A titolo esemplificativo, il vantaggio fiscale indebito si può realizzare perché il soggetto economico verso il quale viene indirizzato il reddito è localizzato in un’area nella quale vige un regime fiscale meno oneroso (con particolare riferimento a determinati Stati esteri in cui specifiche zone geografiche beneficiano di sgravi tributari), ossia per altre ragioni di natura contingente, anche di carattere prettamente commerciale.
In particolare, può accadere che l’entità percettrice dei maggiori utili abbia la possibilità di procedere ad una loro compensazione attraverso perdite fiscali pregresse, annullando così il carico impositivo a livello di gruppo (cfr. Manuale in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, circolare n. 1/2018 del Comando Generale della Guardia di Finanza volume III – parte V – capitolo 11 “Il contrasto all’evasione e alle frodi fiscali di rilievo internazionale”, pag. 367 e ss.).
Il nostro ordinamento tributario, con l’introduzione dell’articolo 110, comma 7, Tuir traccia la normativa sostanziale di riferimento in ambito transfer pricing, stabilendo che: “I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono determinati con riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili se ne deriva un aumento del reddito. La medesima disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, secondo le modalità e alle condizioni di cui all’articolo 31-quater del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600”.
Di contro, in ambito Ocse, rileva il c.d. “principio di libera concorrenza” (c.d. arm’s–length principle) di cui all’articolo 9, paragrafo 1, del modello di convenzione, il quale prevede che quando due o più imprese tra loro indipendenti pongono in essere tra di loro transazioni commerciali, le relative condizioni economiche e finanziarie devono essere determinate dal mercato.
Tenuto conto della complessità del tema in rassegna, occorre fare riferimento alle indicazioni rinvenibili nella giurisprudenza di legittimità emanata in subiecta materia, con particolare attenzione all’onere della prova tra Fisco e contribuente.
In merito, si cita il recente orientamento espresso dalla suprema corte di Cassazione, sezione 5 civile, nella recente sentenza n. 27636 pubblicata in data 12.10.2021.
I supremi giudici, sul punto, esprimono importanti principi di diritto così riassumibili:
- la concessione di un finanziamento infruttifero rientra pienamente nella disciplina prevista in tema di transfer pricing, in funzione dell’esigenza di “oggettivare il valore delle operazioni ai soli fini fiscali” (cfr. ex multis Corte di cassazione, sentenza n. 27018 del 15.11.2017);
- la normativa in esame non integra una disciplina antielusiva in senso proprio, ma è finalizzata alla repressione del fenomeno economico del transfer pricíng (e. lo spostamento d’imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti);
- la ratio della normativa va rinvenuta nel citato principio di libera concorrenza, sicché la valutazione in base al valore normale investe la sostanza economica dell’operazione, che va confrontata con analoghe operazioni realizzate in circostanze comparabili in condizioni di libero mercato avvenute tra soggetti indipendenti, prescindendo dalla capacità originaria di produrre reddito e da qualsiasi obbligo negoziale.
Sotto il profilo dell’onere della prova, “l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare l’esistenza di transazioni economiche, tra imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, ma non anche quello di dimostrare la maggiore fiscalità nazionale o il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente (…) mentre spetta al contribuente provare che la transazione è avvenuta in conformità ai valori di mercato normali” (cfr. Corte di cassazione, sentenza n. 898 del 16.01.2019).
In definitiva, il recupero a tassazione operato da parte dell’Amministrazione finanziaria è stato ritenuto legittimo in quanto l’Agenzia delle entrate non ha alcun onere di provare l’intento elusivo della società contribuente, potendosi limitare a far rilevare la presenza di transazioni ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, situazione che si realizza “in re ipsa” nella particolare ipotesi di finanziamenti infruttiferi.
Di contro incombe sul contribuente l’onere di giustificare la concessione di un finanziamento infruttifero; onere che, secondo il giudice di appello, con valutazione di merito non sindacabile sotto il profilo della violazione di legge, non risultava essere stato assolto.