Prezzo valore: il decreto internazionalizzazione ha carattere retroattivo
di Massimiliano TasiniIl decreto cd. “Internazionalizzazione” – D.Lgs. 147/2015 – al suo articolo 5 ha risolto una querelle che da troppo tempo impegnava le Corti tributarie.
Precisamente, il suo terzo comma stabilisce che gli articoli 58, 68, 85 e 86 del Tuir si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore venale anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro, ipotecaria o catastale.
La disposizione determina il superamento della giurisprudenza della Suprema Corte assolutamente preminente affermatasi in vigenza del pregresso quadro normativo (per tutte: Cassazione n. 4117/2002), secondo la quale, per contro, il valore definito agli effetti delle imposte indirette (si badi bene che chi definiva l’atto era il cessionario, sul quale incombono le imposte indirette) consentiva di accertare un prezzo, e dunque in molte occasioni un plusvalore tassabile, in capo al cedente (il quale dunque subiva gli effetti di scelte non sue: scelte peraltro che determinavano effetti talora dirompenti, ove solo si consideri che, ad esempio, in materia di cessione di azienda l’onere dell’imposta di registro è modesto, con la conseguenza che spesso il cessionario era indotto alla definizione, ad evitare l’insorgenza di una lite certamente lunga e defatigante ma che non aveva ad oggetto importi particolarmente significativi).
La Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato la natura interpretativa dell’articolo 5 D.Lgs. 147/2015.
Così, nella pronuncia n. 3590/2017, la Corte ne ha affermato l’applicabilità anche ai giudizi in corso, atteso l’intento interpretativo chiaramente espresso dal legislatore e considerato che il carattere retroattivo costituisce elemento connaturale alle leggi interpretative. Del resto, prosegue la Corte, anche ove volesse porsi in dubbio che la norma de qua sia effettivamente interpretativa, è certo che l’intento del legislatore è quello di attribuire alla stessa carattere retroattivo che è proprio delle norme interpretative; intento che peraltro appare evidente nell’articolo 5, comma 4, laddove si prevede che le disposizioni di cui al comma 1 si applicano a decorrere dal periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del decreto, mentre nulla si prevede per i commi 2 e 3.
Similmente, la sentenza n. 9343/2017 ha ritenuto che la presunzione circa la corrispondenza del corrispettivo incassato, per la cessione di un’area edificabile, al valore venale in comune di commercio ai fini dell’imposta di registro, secondo il disposto dell’articolo 5, disposizione di interpretazione autentica applicabile retroattivamente, non può essere più legittimata solo sulla base del valore accertato o definito agli effetti dell’imposta di registro.
Ed ancora, possono essere richiamate le pronunce della Cassazione n. 11543/2016 e n. 6135/2016, nelle quali è stato ritenuto che “il principio di presunzione di corrispondenza del prezzo incassato a quello coincidente con il valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro (salvo dimostrazione incombente sulla parte contribuente di avere in concreto venduto o acquistato ad un prezzo inferiore) deve ritenersi ormai superato alla stregua dello ius superveniens di cui al D.Lgs. 14 settembre 2015, articolo 5 comma 3 … quest’ultima norma, infatti ponendosi espressamente quale norma d’interpretazione autentica, ai sensi della L. n. 212/2000, articolo 1, comma 2, è applicabile retroattivamente. Da qui la conclusione che la presunzione di cui sopra non può essere, infatti più legittimata … neppure per le controversie già iniziate sotto il vigore della disciplina previgente”.
Anche la giurisprudenza di merito si è prontamente allineata al nuovo quadro normativo di riferimento, come limpidamente emerge, ad esempio, nella pronuncia CTR Ancona, sezione 3, n. 63/2017 (Pres. D’Aprile, Rel, Agostini), nella quale i Giudici, “per completezza”, danno atto che la società cedente ha dimostrato di aver venduto ad un prezzo inferiore ed ha altresì illustrato i motivi per i quali la cessione di un ramo di azienda è avvenuta ad un prezzo inferiore a quello definito agli effetti dell’imposta di registro. Ed invero, trattandosi di vendita all’interno dello stesso ambito familiare, al valore di avviamento è stato attribuito un importo contenuto. Peraltro, rilevano altresì i Giudici, era interesse della società non far apparire sul certificato di regolarità fiscale l’esistenza di una pendenza con l’Erario, in quanto ciò avrebbe potuto determinare effetti negativi nella sua operatività con la pubblica Amministrazione, cliente stabile della società.
Ci pare che il quadro sia chiarissimo e che ci siano tutti i presupposti per orientare le scelte degli Uffici, che, verosimilmente, hanno ancora tante controversie analoghe nei cassetti.
Un messaggio va però dato anche ai difensori, i quali, a fronte di un simile quadro interpretativo, dovrebbero, con senso di responsabilità, rinunziare alla richiesta di condanna alle spese, salvo che il Fisco resista irragionevolmente in giudizio.
S’il vous plait, Direzione Centrale dell’Agenzia delle Entrate, batti un colpo.