Prima pronuncia della Cassazione sull’art. 18 dopo la Riforma Fornero
di Luca VannoniLa Corte di Cassazione, con la recente sentenza del 6 novembre 2014 n. 23669, per la prima volta ha affermato un importante principio in ordine all’art. 18 Statuto dei Lavoratori, modificato dalla Legge Fornero (L. 92/2012): la reintegrazione, in caso di licenziamento per motivi disciplinari illegittimo, trova applicazione in caso di insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento, senza che si debba procedere con la valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato (la c.d. teoria del fatto giuridico).
Per capire la portata del principio affermato, è opportuno riepilogare brevemente le conseguenze dell’illegittimità del licenziamento per le aziende con più di 15 dipendenti, in base alla disciplina dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, dopo la strutturale riforma del 2012, che faticosamente sta trovando i suoi approdi interpretativi nella giurisprudenza.
Se prima della Riforma Fornero, la reintegrazione era l’automatica conseguenza in caso di licenziamento illegittimo, oggi, oltre a non essere l’unica tutela applicabile, direi che la prospettiva si è capovolta: la tutela è in via principale di natura risarcitoria, con importi oscillanti tra 6 e 12 ovvero tra 12 e 24 mensilità a seconda del motivi di illegittimità; solo nei casi più gravi di illegittimità, espressamente previsti dallo stesso art. 18, risulta applicabile la tutela reintegratoria, che obbliga il datore di lavoro a riattivare il rapporto di lavoro, oltre a ulteriori tutele risarcitorie.
Tra i casi di maggior gravità che determinano l’applicabilità della reintegra, oltre ai casi di nullità del licenziamento previsti dalla legge – tra cui i motivi discriminatori, in caso divieti per maternità o matrimonio -, il comma 4 dell’art. 18 prevede, in materia di licenziamenti per motivi soggettivi o disciplinari, “l’insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con sanzione conservativa sulla base dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari”.
Nell’immediatezza dell’entrata in vigore, in dottrina si è subito posta la questione della corretta interpretazione del passaggio legato all’insussistenza del fatto contestato, cioè, in particolare, se l’insussistenza dovesse limitarsi al fatto materiale, l’azione contestata al lavoratore, ovvero se dovesse riferirsi al fatto giuridico, cioè anche alla connotazione giuridica di quel fatto.
Con la prima interpretazione, la reintegra spetterebbe solo nel caso in cui il fatto materialmente non si sia verificato, con la conseguenza che la manifesta sproporzione tra licenziamento e il fatto commesso non potrebbero che dar vita a una tutela risarcitoria.
In base alla teoria del fatto giuridico, viceversa, la reintegra spetterebbe anche nel caso in cui il fatto, pur essendosi verificato a seguito dell’azione del dipendente, non integrasse anche giuridicamente la fattispecie contestata, mediante valutazioni relative alla qualificabilità del fatto come inadempimento contrattuale, tenendo conto dei profili soggettivi, quali l’intenzionalità, la colpevolezza e l’intensità.
Gli orientamenti giurisprudenziali di merito, in questa prima fase, hanno avuto esiti contrastanti, forse con una prevalenza della teoria del fatto giuridico.
A livello di Cassazione, come anticipato in premessa, la sentenza del 6 novembre 2014 n.23669 per la prima volta si cimenta nell’interpretazione del delicato passaggio. Nelle motivazioni della sentenza si legge infatti che “la reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo all’individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato”.
In base a tale principio, la Corte di Cassazione ha considerato corretto quanto stabilito dalla sentenza impugnata, emessa dalla Corte di Appello il 18.12.2013.
Il caso riguardava il direttore di una filiale di un istituto di credito, licenziato a seguito della contestazione di “incaricare abitualmente i dipendenti della filiale di fare la spesa per il direttore durante l’orario di lavoro”, “di timbrare l’entrata in servizio dello stesso”, “nell’incaricare ripetutamente (i dipendenti) di acquistare il pesce in un Comune vicino durante l’orario di lavoro”. In particolare, secondo il datore di lavoro, il comportamento del lavoratore denotava un atteggiamento perdurante ed attuale di grave scorrettezza e inadempienza nella gestione dell’ufficio.
Tuttavia i riscontri probatori, alla luce dei testimoni esaminati, avevano escluso la commissione delle condotte così come contestate, ossia con riferimento al carattere dell’abitualità: il licenziamento fu così dichiarato illegittimo e fu disposta la reintegrazione.
Quest’ultima è stata considerata la sanzione corretta, in quanto considerato insussistente il requisito dell’abitualità.
Nell’attesa di una maggior sedimentazione delle interpretazioni giurisprudenziali, la sentenza della Cassazione induce la seguente riflessione: indicare nei fatti contestati un elemento di gravità, come l’abitualità, se, da una parte, irrobustisce l’obbligo di motivazione del licenziamento, dall’altra diviene un elemento dei fatti contestati e cessa di essere un elemento esterno di valutazione della proporzionalità, con la conseguenza che, se non provato, determina l’applicazione della reintegra.