Principio dell’antieconomicità ed applicabilità al sistema Iva
di Luigi FerrajoliIn una recente pronuncia della Commissione tributaria Provinciale di Bari, la sentenza n. 2500 del 24/10/2014 i Giudici di merito hanno richiamato il principio espresso dalla Corte di Giustizia Europea nella pronuncia del 20/01/2005 relativa alla causa C-412/03 secondo il quale non è possibile applicare direttamente ed automaticamente i principi espressi in tema di imposizione diretta, con riguardo al tema dell’antieconomicità, all’interno dell’Iva.
La questione sottoposta al Giudice pugliese riguardava l’accertamento con metodo induttivo condotto ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600/1973 nei confronti della titolare di una ditta individuale esercente l’attività di commercio al dettaglio di articoli casalinghi, cristalleria e vasellame.
La ripresa, riguardante, sotto il profilo delle imposte dirette, l’accertamento di ricavi asseritamente non contabilizzati ai sensi dell’art. 85 del Tuir, veniva dall’Agenzia trasposta sul piano Iva con la contestazione di omessa fatturazione e dichiarazione di operazioni attive ex art. 1 del d.P.R. n. 633/1972 e la conseguente ripresa a tassazione di una maggiore imposta suppostamente ricevuta a titolo di rivalsa e non versata.
La Commissione di merito ha ribadito la legittimità della presunzione invocata dall’Ufficio, secondo la quale l’irragionevolezza economica del comportamento del contribuente che, per esempio, affermi per più anni di avere conseguito esclusivamente perdite o di aver sostenuto costi sproporzionati ai ricavi, rappresenta un fatto sintomatico di possibili violazioni all’obbligo della dichiarazione (v. Cass., sentenze nn. 1821/01, 1645/01, 6337/02, 7487/02, 7680/02, 14428/05, 20422/05), perché, non essendo conforme a logica ed a esperienza impostare o proseguire l’attività secondo criteri o malgrado risultati poco vantaggiosi o addirittura dannosi, la circostanza autorizza a presumere che l’interessato abbia, in realtà, incassato più di quanto indicato nella denuncia dei redditi.
Il Collegio, inoltre, ha attribuito al contribuente l’onere probatorio di fornire giustificazioni tali da superare le presunzioni valorizzate dall’Amministrazione e, non ritenendole sussistenti nel caso sottoposto al suo esame, ha confermato la pretesa quanto alle imposte dirette.
La CTP di Bari ha statuito diversamente con riferimento all’imposta sul valore aggiunto, nell’ambito della quale, ribadendo l’ormai costante orientamento della Corte di Cassazione che in recenti pronunce ha più volte mostrato di aderire al principio comunitario (v. Cass. Sez. V, sentenza n. 22130/13, sentenza n. 12502/14 e sentenza 14703/14) secondo cui prevale il principio di neutralità dell’imposta che si esprime attraverso il riconoscimento ad ogni fornitore o prestatore di servizio che ha corrisposto l’Iva per l’acquisto di beni o servizi di detrarre la stessa relativa ai costi sostenuti con il meccanismo della detrazione.
Il suddetto composito meccanismo di rivalsa e di detrazione fa sì che l’Erario non subisca alcun danno in caso di regolare indicazione dell’Iva nei vari passaggi che caratterizzano la cessione del bene o del servizio. D’altronde, il regime delle detrazioni mira a sgravare interamente l’imprenditore dall’onere dell’Iva dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche (V. Corte Giust. 6 dicembre 2012, causa C-285/11).
In perfetta aderenza ai dettami della Corte Europea la Commissione di merito ha affermato: “la circostanza che un’operazione economica sia effettuata ad un prezzo superiore od inferiore al prezzo normale di mercato è irrilevante” precisando come: “in situazioni normali non sia consentito all’amministrazione di rideterminare il valore delle prestazioni e dei servizi acquistati dall’imprenditore escludendo il diritto a detrazione per le ipotesi in cui il valore dei beni e servizi sia ritenuto antieconomico e dunque diverso da quello da considerare normale o comunque sia tale da produrre un risultato antieconomico. Tale verifica l’amministrazione potrà solamente fare allorché la riscontrata antieconomicità rilevi quale indizio di non verità della fattura, nel senso di non verità dell’operazione, oppure di non verità del prezzo o, ancora, di non esistenza dell’inerenza e cioè della destinazione del bene o del servizio acquistati ad essere utilizzati per operazioni assoggettate ad Iva”.
La sentenza ha concluso attribuendo all’Agenzia delle entrate l’onere di dimostrare che la riscontrata antieconomicità, valevole come presunzione ai fini della rettifica delle imposte dirette e regredita a mero indizio ai fini delle rettifiche IVA, sia indice di una omessa o sottofatturazione delle operazioni attive, rendendosi necessario da parte dell’Ufficio procedente l’ulteriore verifica circa la non veridicità delle operazioni e, dunque, del prezzo di cui alle contestate fatture.