Prova cessioni Ue
di EVOLUTIONI casi affrontati dalla prassi in merito alla documentazione attestante la fuoriuscita dei beni dall’Italia nell’ambito di operazioni intracomunitarie fanno emergere il ruolo topico della dichiarazione di arrivo da chiedere al cessionario, ancorché debba essere evidenziato che, in alcuni casi, l’Agenzia potrebbe spingersi a “pretendere” ulteriore documentazione.
L’efficacia probatoria della dichiarazione del cliente attestante il ricevimento della merce, del resto, è rinvenibile anche da una lettura delle motivazioni delle sentenze n. 28, 29, 30 e 31 della CTR del Veneto, sez. VIII, del 14/4/2010 (riferite ad accertamenti su diverse annualità relative allo stesso contribuente).
Dal dispositivo emerge che tra i documenti utili per la prova dell’uscita, “nel caso in cui non si riesca ad avere copia del CMR firmato dal destinatario, può provvedersi all’invio di un fax al cliente estero, richiedendo allo stesso di confermare, stesso mezzo (anche semplicemente con firma in calce al fax ricevuto), la ricezione della merce, con riferimento alla specifica fattura”, ribadendo che “la materiale movimentazione delle merci dall’Italia ad altro Stato membro Ue, che legittima la non applicazione dell’Iva, può essere provata con qualsiasi mezzo che rivesta carattere di certezza ed incontrovertibilità”.
La citata soluzione (richiesta di conferma scritta al cliente di avvenuta ricezione) può essere quindi considerata una prova attendibile dai verificatori a condizione, come vedremo nel prosieguo, che il fornitore in questione non sia in mala fede (ad esempio perché partecipa consapevolmente ad una frode carosello) o comunque non sia stato particolarmente negligente mancando di porre in essere tutti gli accorgimenti nella sua possibilità al fine evitare di incorrere in situazioni fraudolente.
Nelle citate sentenze “il documento di trasporto internazionale “CMR”, firmato sia dal trasportatore per presa in carico della merce, sia dal destinatario per ricevuta (la cui copia può essere richiesta al cliente comunitario con attestazione della ricevuta della merce)” viene esemplificato come mezzo adeguato ma, appunto, non l’unico che sia idoneo a provare il trasferimento dei beni.
È peraltro utile osservare che nel caso oggetto del citato contenzioso la CTR ha considerato non fornita la prova atteso che:
- la società aveva a tal fine fornito dei CMR incompleti (in essi vi era soltanto la sigla del trasportatore e non il nome completo, rendendone impossibile l’identificazione, non erano indicati gli estremi dell’automezzo con i quali erano avvenuti i trasporti e tali documenti non erano numerati);
- inoltre, il contribuente, a fronte di operazioni di rilevante ammontare, non aveva mai dimostrato di aver avuto alcun rapporto con il cessionario, attraverso corrispondenza commerciale in formato cartaceo o elettronico (fax, e-mail) od ogni altro mezzo di comunicazione generalmente utilizzato nella prassi commerciale, limitandosi, invece, ad affermare di aver evaso gli ordini impartiti da una persona sentita soltanto telefonicamente (poi risultata inesistente).
Per completezza si segnala che la società contribuente ha visto sistematicamente rigettati tutti gli oltre 20 motivi di censura sostenuti in un corposo ricorso in Cassazione (sentenza 13457 del 27/7/2012).
In pratica, laddove non sia possibile documentare l’avvenuta consegna della merce tramite il CMR corroborato anche dalla firma del destinatario, la prova dell’avvenuta cessione intracomunitaria può trovare, quindi, riscontro anche dall’insieme di altra documentazione esterna (lettere di vettura, attestazioni di avvenuta consegna della merce al vettore, dichiarazione di arrivo del cessionario), compresi altri documenti citati nella circolare 75/D/2002 (in materia di “prove alternative” delle esportazioni), quali la fattura commerciale, il documento bancario attestante il pagamento, la lettera di credito, il certificato di assicurazione o di controllo, la certificazione sanitaria.
Infine, per completezza si segnala l’ordinanza n. 9717/2018 della Corte di Cassazione che ha destato non poche perplessità poiché cavalca una linea dura, addirittura più rigida rispetto alle linee guida fornite dall’Agenzia delle Entrate con i suoi documenti di prassi. In tale circostanza la Suprema Corte ha stabilito che, atteso che “in tema di recupero di Iva per esportazioni al di fuori dei confini comunitari non dimostrate, la destinazione della merce all’esportazione … deve essere provata dalla documentazione doganale. In assenza di tale documentazione, non potendosi addebitare all’esportatore la mancata esibizione di un documento di cui egli non ha la disponibilità, tale prova può, peraltro, essere fornita con ogni mezzo, purché abbia il requisito della certezza ed incontrovertibilità, quale l’attestazione di pubbliche amministrazioni del Paese di destinazione dell’avvenuta presentazione delle merci in dogana”, con conseguente “inidoneità, ai predetti fini, di documenti di origine privata, come le fatture emesse e la documentazione bancaria attestante il relativo, avvenuto pagamento”, “Tale principio … è certo applicabile anche alle cessioni intracomunitarie”.
A detta della sentenza, ai fini della non imponibilità, ciò che serve è altra documentazione agevolmente utilizzabile dal contribuente, quale il modello CMR (che presenta il contenuto di una lettera di vettura contenente i dati della spedizione e le firme dei soggetti coinvolti nell’operazione, cioè cedente, cessionario e vettore) e i contratti commerciali.
Una delle perplessità riguarda il fatto che anche questi documenti (CMR e contratti commerciali) hanno natura privata. Inoltre, va rilevato che non si capisce quali documenti di origine non privata possano essere prodotti nell’ambito di operazioni intracomunitarie.
Nella Scheda di studio pubblicata su EVOLUTION sono approfonditi, tra gli altri, i seguenti aspetti: |