25 Luglio 2024

Prove inutilizzabili ai fini accertativi se illegittimamente acquisite: bene, ma non benissimo

di Silvio Rivetti
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La scheda di FISCOPRATICO

Il complessivo riassetto dei rapporti tra il processo penale e quello tributario, come recentemente ridisegnato a cura del D.Lgs. 87/2024, giustifica qualche riflessione a proposito di come la riforma fiscale abbia ibridato il diritto delle imposte con principi sinora appartenuti al solo universo penalistico, in una logica di maggiore garanzia del contribuente. In questa prospettiva, è allora utile riportare attenzione all’articolo 7-quinquies, L. 212/2000, Statuto del contribuente, come introdotto dal D.Lgs 219/2023, per il quale “Non sono utilizzabili ai fini dell’accertamento amministrativo o giudiziale del tributo gli elementi di prova acquisiti oltre i termini di cui all’articolo 12, comma 5, o in violazione di legge”.

Tale norma introduce e adatta, nell’ordinamento tributario, un chiaro precetto di matrice processual-penalistica: quello dell’articolo 191 c.p.p., per il quale le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate (comma 1); e per il quale tale inutilizzabilità è rilevabile anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento (comma 2).

Per quanto simili, le due norme differiscono in maniera non banale: ed è interessante notare come quella tributaria operi con un raggio d’azione più vasto rispetto a quella penale, trovando essa applicazione non solo sul piano strettamente processuale, ma anche su quello sostanziale. Le prove irritualmente acquisite, infatti, non possono fondare né l’accertamento “giudiziale” del tributo, a cura delle Corti di giustizia tributaria che giudicano del rapporto controverso in sede processuale, né l’accertamento “amministrativo” del tributo, a cura degli enti impositori. In conseguenza di ciò, oggi il contribuente può essere tutelato rispetto all’impiego distorto di fonti di prova irritualmente acquisite già in sede di presentazione di osservazioni allo schema d’atto, ovvero nel corso di qualunque altra tipologia ammessa di confronto preventivo con le amministrazioni procedenti; senza dover necessariamente attendere il contenzioso per eccepire il vizio dell’agire del soggetto pubblico, mediante la contestazione dell’atto impugnabile.

Anche dal punto di vista dell’ambito oggettivo di applicazione, la norma tributaria opera in termini più ampi di quella penale: perché, stando al suo tenore letterale, gli elementi di prova sono ora inutilizzabili in sede fiscale, ogniqualvolta assunti “in violazione di legge”, quale genus di vizio estremamente ampio (di cui la casistica della violazione dei termini di durata della verifica fiscale ex articolo 12, comma 5, L. 212/2000, puntualmente richiamata nel corpo dell’articolo 7-quinquies in commento, è mera species); e non solo al ricorrere della più specifica ipotesi, invece rilevante in ambito penalistico, dell’acquisizione di elementi di prova in violazione dei “divieti” stabiliti dalla legge. Da tale impostazione deriva che, ogni volta sia configurabile un contrasto tra l’attività ispettiva dell’ente impositivo, e le norme che ne regolano l’esercizio dei poteri d’indagine, comprese le violazioni delle norme sulla competenza, sulla partecipazione del contribuente, sulla validità degli atti e soprattutto sul procedimento (ai sensi dell’articolo 7-bis comma 1 dello Statuto del contribuente), gli elementi di prova assunti, e gli elementi indiziari che compongono le prove presuntive rilevanti in ambito tributario, non potranno essere presi in considerazione.

Questa lettura, come ritraibile dall’ampia formulazione legislativa adottata, induce a ritenere superabili quei contrafforti a suo tempo elevati da parte della giurisprudenza di legittimità, la quale, pur in assenza di esplicita previsione normativa, era comunque incline a riconoscere l’illegittimità degli atti impositivi emessi sulla base di documentazione irritualmente acquisita, purché risultassero violati diritti costituzionalmente garantiti: come nel caso di accessi domiciliari e perquisizioni personali posti in essere senza la debita autorizzazione del Procuratore della Repubblica (in violazione dell’articolo 52, D.P.R. 633/1972 e articolo 33, comma 1, D.P.R. 600/1973: Cassazione n. 18355/2022), o eseguiti in forza di autorizzazione non idoneamente motivata quanto ai gravi indizi di illecito fiscale (perché facente riferimento, ad esempio, alla mera ricezione di informazioni anonime: Cassazione n. 763/2024). In questo quadro, è allora da chiedersi se, giusta il nuovo dato normativo positivo, casistiche di violazione di norme procedimentali che di per sé non sembrerebbero pregiudizievoli di interessi costituzionalmente rilevanti dei contribuenti, come il mancato rispetto di formalità tipicamente “interne”, quali le autorizzazioni degli uffici superiori allo svolgimento delle indagini finanziarie, o quelle dell’Autorità giudiziaria alla trasmissione di elementi probatori acquisiti all’esito di indagini penali a favore dell’amministrazione finanziaria (rispettivamente disposte dall’articolo 32, comma 7, e dall’articolo 33, comma 3, D.P.R. 600/1973), non rilevino, ora e finalmente, in termini di inutilizzabilità, per “violazione di legge” (a differenza di quanto sancito, precedentemente, dalla giurisprudenza: Cassazione n. 35329/2022 e Cassazione n. 2408/2019). Alla luce del nuovo articolo 7-quinquies, L. 212/2000, inoltre, parrebbe non più sostenibile quello specioso distinguo, fatto proprio da costante Cassazione in passato, per cui elementi di convincimento acquisiti “in occasione” di accessi domiciliari privi della prescritta autorizzazione, e non “in diretta esecuzione” di tali accessi, come le dichiarazioni dei terzi e dei diretti interessati, sarebbero sempre utilizzabili, in quanto prove non presupponenti l’accesso come condizione necessaria, essendo acquisibili anche altrimenti (per tutte, Cassazione n. 10734/2021).

Il legislatore della riforma, nell’estendere al cittadino-contribuente guarentigie paragonabili a quelle del cittadino-imputato, ha tuttavia omesso di tutelare il primo nella stessa misura “piena” del secondo: omettendo di richiamare nel rito tributario la previsione dell’articolo 191, comma 2, c.p.p., per la quale l’inutilizzabilità delle prove scorrettamente acquisite è rilevabile dal giudice in ogni stato e grado del giudizio. Nel calzare il vizio di cui si discute con le vesti della “violazione di legge”, infatti, la legge ha finito con il ricondurne la contestabilità all’esclusiva iniziativa del contribuente, da esprimersi a pena di decadenza nel ricorso introduttivo innanzi alla Corte di giustizia tributaria di primo grado, quale motivo di annullabilità dell’atto impugnato, ai sensi dell’articolo 7-bis, comma 2, L. 212/2000 (Statuto del contribuente).