Qualche soddisfazione dalla Giurisprudenza
di Giovanni ValcarenghiPaolo NoventaFacendo un po’ di “zapping” tra le sentenze rilasciate dalle Commissioni di merito, capita talvolta di rinvenire alcune pronunce la cui lettura produce grande soddisfazione, una sorta di godimento perverso per il contribuente che riesce a vedere affermate le proprie ragioni, anche andando oltre i meri ragionamenti di convenienza che spesso facciamo nella vita professionale di ogni giorno.
Oltre alla soddisfazione, proviamo anche un senso di ammirazione per i colleghi Difensori che, evidentemente, hanno applicato con tenacia la loro professionalità spingendo il contribuente ad andare sino in fondo, costi quel costi. E nelle due casistiche che brevemente raccontiamo, le cose sono davvero andate per il verso giusto, come sempre dovrebbe essere.
La prima vicenda (CTR Milano n. 2088 del 19-05-2015) attiene alla condanna alle spese di lite, in un caso assolutamente ricorrente: a fronte di una istanza di rimborso IVA (parliamo di 800.000 euro) denegata per motivi rivelatisi poi inesistenti, il contribuente, che già aveva presentato – senza successo – istanza di autotutela, impugna l’atto. L’ufficio, nelle more della discussione, revoca l’atto, ed alla discussione in primo grado la CTP dichiara la cessata materia del contendere, spese compensate. Il contribuente non ci sta, giustamente, ed impugna la sentenza al solo fine di richiedere la condanna alle spese di lite, per il semplice motivo che – ove l’Ufficio si fosse attivato per tempo – il giudizio non si sarebbe dovuto incardinare.
Sono fulminanti alcuni passi della sentenza, a tal punto che ci torna la voglia di fare i commercialisti (e di questi tempi non è cosa facile): “… Ciò costituiva e costituisce evidente ragione di responsabilità etiologicamente valutabile ai fini della disciplina delle spese processuali, tenuto conto che la revoca del diniego di rimborso è intervenuta da parte dell’Agenzia solo a giudizio di primo grado ormai instaurato, e che lo stesso irragionevole diniego iniziale ha determinato un indebito allungamento dei tempi di recupero del credito, di per sé produttivo di danno patrimoniale per un’impresa, che una somma così rilevante come quella di specie ben poteva immettere nei flussi finanziari aziendali, anche riscuotendo interessi attivi tramite deposito bancario, anziché pagarne di passivi, per approvvigionarsi di una somma di pari misura ai fini della continuità dell’attività d’impresa”. Il Difensore, poi, probabilmente arrabbiato per il comportamento dell’Ufficio, aveva richiesto anche la condanna per lite temeraria; la Commissione lo segue anche su questa via: “… Sul piano applicativo, dunque, non vi è dubbio che sia possibile procedere sia con condanna da lite temeraria per colpa grave ex art.96, comma 1, sia con condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata ex art. 96, comma 3. La sola condizione che nella specie deve ritenersi opportuno e necessario rispettare è che non vi sia una duplicazione dell’importo della condanna, e a tale regola ci si intende qui conformare”. Pertanto, accoglie l’appello, condanna l’Agenzia al pagamento delle spese di lite (1.200 euro per il primo grado e 1.800 euro per il secondo grado), oltre a 15.000,00 euro a titolo di risarcimento del danno per lite temeraria. Ola!
Un piccolo rammarico: su chi graveranno queste spese? Sul pigro funzionario, sul Direttore dell’Ufficio, oppure sul portafoglio di tutti noi?
L’altra vicenda che non è connessa per tematica, ma semplicemente per la lucidità di ragionamento dei Giudici, attiene la corretta instaurazione del contraddittorio preventivo nel caso di soggetti trasparenti (CTP Milano n. 4585 del 20.05-2015). Si parte da un accertamento evidentemente “complicato” per svariate motivazioni. Una sas svolgente attività di agenzia immobiliare si era vista recapitare un accertamento analitico induttivo per non avere risposto ad un questionario inviato dall’Agenzia delle entrate (circostanza poi ritenuta scusabile dalla Commissione in quanto dovuta ad un disguido del servizio postale), unitamente ad altre vicende quali l’assenza di contratti scritti con i clienti, l’applicazione di percentuali di mediazione non in linea con il mercato, una compilazione non “perfetta” dello studio di settore.
In sede di accertamento con adesione, l’Ufficio proponeva una riduzione della pretesa dagli originari 103 mila euro a circa 58 mila euro, proposta che veniva rifiutata dal contribuente (sas); peccato che a quel contraddittorio non fosse ufficialmente rappresentata la socia di minoranza della sas, titolare della quota del 5% del capitale sociale.
Tale circostanza ha determinato due differenti strategie difensive da parte dei 2 soci:
- il socio di maggioranza (95%), ha considerato il merito della vicenda, sostenendo la non corretta ricostruzione dei ricavi da parte dell’Ufficio, che avrebbe difettato nella considerazione di alcune giustificazioni (peraltro avanzate in forma scritta nel contraddittorio e completamente trascurate dall’Ufficio);
- il socio di minoranza (5%) ha semplicemente lamentato il fatto di non essere stato coinvolto nella fase di contraddittorio per l’adesione, sostenendo che avrebbe volentieri profittato della proposta dell’Ufficio.
Oltre ad avere sostenuto la impossibilità di ricostruzione analitico induttiva dei ricavi per assenza delle presunzioni gravi precise e concordanti (che, in questa sede, assumo importanza secondaria), “la Commissione rileva che, in caso di accertamento in capo ad una società di persone, con conseguenti ricadute in capo ai soci per trasparenza impositiva, vige il principio di litisconsorzio necessario, non solo nell’ambito procedimentale del ricorso, ma per tutti gli atti endo-procedimentali prodromici all’emissione di atti impositivi che possano incidere sugli interessi individuali delle persone, quale indubbiamente è l’avviso di accertamento.
Supporta la tesi sopra espressa, la sentenza della Corte di Cassazione SS.UU. n. 19667/2014, in tema di garanzia e rispetto dei principi di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente.
E’ innegabile inoltre che non ci sia stato un contraddittorio tra l’Ufficio ed i ricorrenti prima dell’emissione dell’accertamento, ma che si sia esperito esclusivamente un tentativo di accertamento con adesione, richiesto dalla società, nel corso del quale peraltro non sono stati invitati tutti i soci della società”.
Quindi, anche in questo caso è bastevole l’avere omesso di attribuire al contraddittorio (peraltro nemmeno preventivo, come dovrebbe essere) la giusta importanza che lo stesso riveste per determinare la nullità dell’atto. Ed anche questo ci piace parecchio.
Con queste due piccole contestazioni, per una volta, chiudiamo il pezzo con il sorriso sulla bocca.
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