In un recente viaggio all’estero ho avuto modo di toccare con mano alcune situazioni che a mio modo di vedere assomigliano molto da vicino a quanto accade nei nostri studi professionali.
Un lungo viaggio automobilistico da Trieste, la mia bella città, fino a Monaco di Baviera, una capitale dell’economia, attraversando la verdeggiante Austria felix. Il percorso prevede l’attraversamento di tre Stati, che hanno
regole e prassi di comportamento (auto)stradale completamente
diverse.
È stato divertente verificare il comportamento degli stessi guidatori, a bordo dei medesimi veicoli, inseriti in sistemi e culture diverse. E così occorre prestare grande attenzione quando si attraversa il confine tra Austria e Germania, andando a nord. Appena scollinato dove una volta c’era la dogana e oggi- complice Schengen – c’ è un fast food, occorre guardarsi le spalle dai bolidi che iniziano a sorpassare per portarsi a velocità da circuito di formula uno. In Germania, infatti, non ci sono limiti di velocita sulle autostrade, per cui chi ha auto di grossa cilindrata si sfoga. Salvo che in pochi punti strategici, come i grandi incroci, dove la velocità che tutti mantengono è quella realmente indicata sui cartelli. Tutti vanno a 80 in prossimità di questi pericolosi nodi stradali, poi di nuovo a rotta di collo.
In Austria invece, gli stessi automobilisti, le stesse auto, ma condotte completamente diverse. Tutti a 129 all’ora fissi. Noia mortale, radio a manetta. Se vai a 131 si accendono decine di minacciosi avvisi luminosi. E se non smetti subito esce da dietro un pino un auto civetta. Molti euro di multa e spesso sequestro del veicolo. Non hai soldi? Tutte le pattuglie hanno il pos. Meglio dei professionisti italiani.
E in Italia? Da noi i limiti sono nominali, li mette il gestore solo per esimersi da responsabilità quando c’è una curva, una strettoia o una buca. Si va piano solo quando si prevede l’autovelox o necessita sorpassare la pattuglia, sbuffando e sperando che esca al primo autogrill. E se arriva una multa, è pronto l’amico o il ricorso.
E quando il gatto non c’è i topi ballano. I tir hanno scritto dietro 80 e 90 ma vanno a 110. Le auto credono di essere in Germania e pensate a cosa accade nelle metropolitane. In Austria non ci sono i tornelli e non ci sono i controllori. Perché tutti pagano. L’edicola è sostituita da un mucchietto di giornali e un salvadanaio. Da noi sparirebbero non solo i giornali e il salvadanaio ma ci sarebbe qualcuno che scassa i tornelli. Il custode farebbe finta di non vedere i clandestini per non avere problemi, o li farebbe entrare a metà prezzo incassando al posto del titolare del servizio.
E lo stesso accade nei nostri studi.
Ci sono alcuni studi dove le persone sono positive e propositive, apportano clienti, parlano bene dello studio, sono orgogliose di appartenervi, collaborano tra di loro. E non è che siano pagati di più degli altri. Anzi, spesso sono meno remunerati.
In altri consessi professionali, purtroppo, nonostante la presenza di principi etici, istruzioni di lavoro,
office manager, riunioni fiume, uffici controllo interno, capi ufficio di fantozziana memoria,
ognuno pensa a sé stesso e si fa rigorosamente i fatti suoi. Non aiuta, parla male degli altri, non vede l’ora che arrivino le cinque perchè gli caschi la penna.
Con il passare del tempo mi sono fatto l’idea che
il successo di uno studio professionale è una
questione di cultura.
E che cambiare la cultura di uno studio è l’operazione più difficile che esista al mondo.
È molto più facile istituirla
ex novo. Prendete quel notaio che ha appena vinto il concorso, non ha voluto prendere una impiegata già formata. Ha preferito assumere come apprendisti un paio di giovani e pazientemente insegnare loro il mestiere.
Il suo collega di concorso, partendo con qualche cliente in più, ha invece preso la scorciatoia. Ha assunto due persone già formate. Ognuna proveniva da uno studio diverso, in cui il notaio precedente è andato in pensione. Ora sono loro due a fare la cultura dello studio, imponendo al notaio un misto di quello che hanno vissuto nel loro lavoro precedente e adattandolo al nuovo contesto. Un
cocktail che non di rado si configura come la somma del nitro con la glicerina. Elementi di per sé assolutamente neutri, che a contatto tra loro diventano irrimediabilmente esplosivi.
Ma da dove viene la cultura? Come si uniforma?
La cultura dipende dalla leadership e richiede di avere tempo per l’inclusione dei nuovi entrati.
Provate a inserire un praticante esterno in uno studio a gestione familiare. Sarà molto probabilmente espulso, salvo diventare membro della famiglia a sua volta.
Pensate a quanto spesso i
lateral hirings, cioè l’assunzione di professionisti esterni specializzati, fallisce per lo scontro tra culture. Anche in studi molto strutturati e dotati di risorse idonee all’inserimento.
E a quanto siano inutili gli sforzi di chi ha uno studio monocratico senza deleghe di responsabilità e tenta di inserire dei quadri intermedi. La cultura resta
lean, inintermediari. I quadri vengono sistematicamente bypassati o messi in corto circuito per farli saltare.
La cultura si cambia più facilmente quando ci sono dei traumi. Imporre una cultura positiva richiede Grande unità strategica e direzionale, che spesso nei nostri studi, soprattutto quelli
assoxiatinon c’è. Richiede inoltre almeno a livello iniziale la presenza continua del
management. Cosa che i professionisti raramente riescono a garantire.
Contano naturalmente anche i sistemi di controllo. Sulle nostre autostrade il tutor c’e” ma spesso è spento perché la centrale che stampa le multe ha una dimensione insufficiente. È come registrare i tempi di lavoro su un
timesheet che nessuno guarda mai.
La metafora del viaggio in autostrada ci dice che variano anche i sistemi di controllo.
C’è quello dove le persone si autoregolamentano e quello dove l’intervento del
management è costante. Il peggiore sistema sembra essere il nostro dove l’adesione alle regole di gruppo è solo formale, di facciata.
Come si può cambiare la cultura di uno studio? Servono azioni persistenti e omogenee. raramente ne siamo capaci, perché non investiamo sui processi secondari. Che consideriamo un costo. Se vogliamo una diversa cultura non basta sporadicamente dirlo. Anche gli incentivi economici sono un alibi dietro il quale si nasconde la nostra poca voglia e l’incapacità di fare
management. Ci sono studi dove chi porta un cliente prende il 30 o più per cento del fatturato ma la gente non lo fa perché si vergogna o perché teme di dover lavorare di più e studi dove non ci sono incentivi di sorta ma la gente è orgogliosa di portare i propri amici e conoscenti. E lo fa regolarmente.
Per convincere il sciur Mario o la sciura Pina che quanto fatto negli ultimi 25 anni di indefesso lavoro va cambiato, rapidamente e per sempre, servirà un lungo e faticoso percorso, fatto di colloqui, ore di formazione, contaminazioni esterne, esempi, ma anche talvolta di azioni improvvise, o perfino drastiche come quel collega che dopo averle tentate tutte ha mandato a casa tutti i vecchi impiegati rimpiazzandoli con dei giovani professionisti. Nella scelta tra il cambiamento graduale e quello improvviso, o come direbbero i giapponesi tra Kaizen e kaikaku, preferiamo in modo molto zen tenerci il kaos, la solita confusione di sempre.
Scoprite anche voi la cultura del vostro studio. Ma prima, mettete le cinture di sicurezza. E Buon viaggio!