Questione di pricing
di Michele D’AgnoloMi sembra quasi di vederli, Cocciante e Mina, in un duetto appassionato, come fossero un cliente con il suo professionista, cantando a squarciagola “Questione di pricing”. Ed in effetti, una delle questioni più dibattute e controverse a livello pratico è quella di quale prezzo attribuire alle prestazioni professionali.
Inseguire il circolo vizioso della spirale al ribasso imitando i competitors o fermarsi rischiando di deprimere la domanda, di rimanere con le mani in mano soli con il nostro nobile ma decaduto posizionamento? Fare gli sconti degli sconti o rimanere integri in mezzo al deserto?
In una socioeconomia che è stata catapultata suo malgrado dal convivio al mercato e nella quale l’offerta di servizi professionali supera di gran lunga la domanda, siamo totalmente spiazzati nell’arte di fare i prezzi. Per le aziende, è un discorso fondamentale nel quale sono coinvolte ingenti risorse, umane e materiali. Ci sono costantemente sul campo sistemi di monitoraggio continuo della concorrenza, analisi di mercato, sondaggi presso la clientela, verifiche su beni e servizi succedanei.
Altro discorso molto attuale, interessante e correlato, che magari approfondiremo in altra sede, è quello del riuscire a farsi pagare i prezzi che abbiamo stabilito e concordato con il cliente.
I prezzi sono uno strumento di marketing. Definiscono il posizionamento dello studio, se non sei abbastanza caro non sei esclusivo e non trasudi qualità. Se sei a buon mercato, sei tu il primo a svalutarti, a dire al mondo che non vali nulla. Possono essere usati per scremare il mercato o per acquisirne quote. Possono essere usati per uccidere un competitor spiazzandolo completamente, andando a offrire ai suoi clienti lo stesso servizio a metà prezzo. Possono essere utilizzati per far acquistare un prodotto civetta richiamando il cliente tra le nostre avide braccia. Tutti usi che noi ignoriamo, legati come siamo al retaggio del prezzo predeterminato dallo Stato e a qualche vacuo riferimento deontologico.
In principio, ci furono le tariffe. Le tariffe nascevano nella notte dei tempi, non si sa in base a quale valutazione del decoro della professione. Concetto che oggi francamente richiama alla mente soltanto la carta da parati. Poi ogni tot anni venivano ritoccate in base all’indice istat, unico riferimento oggettivo di tutto l’armamentario. Anche se nessuno lo dice, le tariffe sono morte perché erano insostenibili sul piano logico argomentativo, essendo legate fondamentalmente al valore della pratica. Concetto che non esprime compiutamente alcuna valutazione economica per il cliente né per il professionista. Non è una misura di costo, non è una misura del rischio che il professionista sostiene, non è una misura del beneficio che il cliente ritrae dalla prestazione, non è una misura della particolare capacità individuale del professionista né del posizionamento. Era una definizione arbitraria.
Anzi, poiché nelle prestazioni professionali la complessità non è necessariamente funzione del valore della pratica, le tariffe erano fortemente nonniste, nel senso che premiavano il professionista affermato che aveva pratiche di valore maggiore, rispetto al collega neoabilitato che si affacciava sul mercato da solo, raccogliendo intanto le briciole. La grossa perizia, la grossa curatela, richiedono uno sforzo non dissimile a quello di una piccola.
E quindi a colpi di lenzuolate, in nome degli asseriti vantaggi del libero mercato, tutti da dimostrare, le tariffe non ci sono più. Esistono i parametri giudiziali, calcolati dal governo Monti con un sistema altrettanto grossolano e approssimativo: tagliamo tutto del 30% visto che negli altri paesi europei il costo delle prestazioni professionali è di un tanto più basso. Peccato che negli altri paesi la burocrazia funziona, mentre qui no e i professionisti lavorano da noi più per lo stato che per il cliente.
Le tariffe quindi, che erano un concetto giuridico, sono diventate improvvisamente un concetto economico. Il prezzo, ci insegnavano a Economia, è l’incontro tra la domanda e l’offerta. E’ chiaro quindi che in una economia fortemente competitiva come quella attuale i prezzi delle prestazioni professionali tendono generalmente a scendere e che le prestazioni professionali tendono a commodizzarsi, cioè i professionisti tendono ad essere considerati sempre più indistintamente dai clienti.
Qualche anno fa impazzava sulla TV commerciale un programma televisivo, condotto dalla frizzante Iva Zanicchi, in cui si chiedeva di indovinare i prezzi. Purtroppo in molti casi la definizione del prezzo all’interno dello studio professionale è altrettanto cabalistica.
Spesso le prestazioni dei professionisti sono definite a preventivo a forfait. Questo è particolarmente vero per commercialisti e consulenti del lavoro che hanno un rapporto continuativo di elaborazione e consulenza con il cliente. Ma anche nel campo legale si vanno affermando formule cottimistiche di determinazione del corrispettivo, per esempio per il recupero crediti o per la consulenza stragiudiziale continuativa.
Quasi sempre purtroppo i professionisti non sono in grado di verificare se i loro forfait sono coerenti con il numero di ore effettivamente impiegate per un determinato cliente/incarico. Solo il 30% dei nostri studi, secondo il Politecnico di Milano, misura le ore.
Il sistema di addebitare un tot per ora si sta progressivamente diffondendo in Italia. Proviene dal mondo anglosassone, dove è stato ampiamente esplorato e collaudato, mettendone a nudo vantaggi e distorsioni. Si applica il costo diretto del personale impiegato più una quota parte delle spese di studio e si ottiene il costo di break even. Su questo si applica un margine percentuale. È utilissimo andare dal cliente con l’elenco delle ore svolte a difendere e contrattare il forfait. È semplicissimo moltiplicare le ore per una cifra e inviare la parcella. Ma che succede quando l’idea risolutiva di un quesito da milioni di euro ci è venuta sabato mattina sotto la doccia o è stata trasmessa al cliente con un istantaneo SMS? Parimenti, con la fatturazione a tempo rischiamo di scaricare tutta la nostra inefficienza sul cliente in quanto la lentezza del praticante bradipo di turno verrebbe totalmente riaddebitata.
Altro sistema, valido per le prestazioni tipiche, è quello di dotarsi di un listino prezzi. Anche questi dovranno essere superiori al break even se vogliamo sopravvivere nel medio lungo periodo e paragonabili a quelli della concorrenza, ovvero differenziati in base a una differenziazione di servizi o di livelli di servizio.
Si possono agevomente trovare su internet, soprattutto per commercialisti, consulenti del lavoro ma anche odontoiatri ormai molti tariffari completi, che possono essere utili per confrontare le politiche di pricing adottate dai nostri consimili. Meno comuni da riscontrare in chiaro, ovviamente, le fees per i servizi più alti di gamma e per i servizi legali e notarili. Questi ultimi però stanno diventando oggetto di commenti e condivisioni sui blog e nei social.
Oggi si vanno inoltre sperimentando modalità diverse di definizione del prezzo. Una prima modalità è quella legata al valore della prestazione per il cliente. Non si tratta di una tecnica applicabile a tutte le prestazioni, ma sicuramente a quelle di maggiore pregio, che non è detto siano quelle di maggiore difficoltà tecnica. Se io fornisco a un cliente un’agevolazione o gli faccio vincere un contenzioso, è agevole calcolare il valore per il cliente della mia pratica. Posso quindi chiedere al cliente di condividerne una parte. Più difficoltoso valutare le situazioni in cui prestando consulenza, operiamo sostanzialmente in prevenzione. Quanto vale un dente ben curato in termine di fastidi futuri rispetto ad un dente buttato su? Quanto ti fa risparmiare una dichiarazione dei redditi ineccepibile a livello di verifiche future? Quanto vale la chiusura transattiva di una lite. Giulio Cesare diceva che la pace non ha prezzo. Non si tratta quindi soltanto del “patto quota lite” ma di una modalità di definizione del prezzo più generalizzata tenendo conto del valore aggiunto percepito, emotivo, di quello che facciamo.
Una seconda modalità che va prendendo piede, è quella assolutamente disarmante del gratis. Tutti siamo abituati dal mondo digitale a fruire di servizi gratuiti di ogni genere, che vengono sovvenzionati dalla pubblicità di qualche prodotto o dai nostri dati comportamentali che i provider ritraggono quando ci colleghiamo sui loro siti. Una intera generazione di nostri clienti, i nativi digitali, sono nati nell’epoca del tutto subito e gratis. Mentre sanno che devono necessariamente mettere mano al portafoglio per comprarsi un panino, Soprattutto per ottenere informazioni e consigli non sono disposti a spendere un centesimo. È da quando sono nati che lo trovano gratis smanettando sui loro smartphone. Come faremo a convincerli a spendere un centesimo per il nostro aiuto? Da quali aziende saremo costretti a farci sponsorizzare?
E che cosa accadrebbe se cominciassimo ad applicare alle prestazioni professionali i concetti di revenue management che oggi applicano i tour operator? Avete mai provato a cercare un hotel a Milano quando c’è una fiera? Sembra di andare in gioielleria. E se così fosse, a maggio giustamente i commercialisti costerebbero il doppio, mentre a ottobre la metà. A dicembre sarebbero i notai a spuntare un prezzo maggiore, e così via. E magari avremo un giorno il professionista “last minute”, che si venderà sottocosto pur di non rimanere con le mani in mano.
L’incessante pressione sui prezzi da parte della clientela non può essere ignorata, costringe a fare efficienza e a differenziarsi nelle prestazioni, nella tecnologia e nella comunicazione, adoperandosi continuamente e misurandosi con gli altri competitors. Spinge purtroppo qualcuno ad abbassare o financo a dimenticare la qualità pur di arrivare comunque al prezzo desiderato dai clienti. Tanto, prima che un cliente si accorga che il suo professionista è stato negligente o troppo compiacente, a volte passano anni.