Questioni problematiche sul recupero delle imposte estere
di Giovanni ValcarenghiLa Circolare n. 9/E/2015 ha risolto alcuni problemi che si ponevano agli operatori che assistevano contribuenti che fossero stati chiamati ad assolvere imposte estere. Il credito disciplinato dall’articolo 165 del Tuir, infatti, spetta (tra l’altro) alla condizione che tali tributi siano stati corrisposti su redditi che si possano considerare prodotti all’estero. In tal senso, si dovranno adottare i criteri vigenti dalla Convenzione (ove esistente), oppure applicare una lettura “a specchio” dell’articolo 23 del Tuir.
Tuttavia, alcune situazioni non possono essere gestite in modo “lineare” applicando questi criteri; alcuni rimedi giungono fortunatamente dal paragrafo 2.1 della Circolare.
Una situazione riguarda interessi, dividendi, royalties e simili conseguiti all’estero da società ed enti commerciali residenti; ai fini Ires trattasi comunque di redditi di impresa ma, in base alla lettura a specchio della lettera e) del comma 1 dell’articolo 23 Tuir, i redditi d’impresa sono da considerare come prodotti all’estero solo se derivanti da attività esercitate oltre frontiera mediante stabili organizzazioni. Appariva pertanto evidente la situazione di impasse in tutte quelle occasioni in cui mancasse la presenza della stabile organizzazione, con il rischio della perdita del credito. In modo condivisibile, invece, la Circolare afferma che “si ritiene che tali redditi di fonte estera debbano essere considerati autonomamente – sulla base della lettura a specchio dell’articolo 23 del TUIR – anche in capo a imprese residenti, senza dare rilievo, ai fini del riconoscimento del credito di imposta, alla circostanza che essi concorrono in Italia alla formazione dell’unitario reddito d’impresa. Infatti, mentre per le imprese residenti vige il c.d. “fattore unificante della commercialità”, nel caso di imprese, società ed enti non residenti privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato, trova applicazione il principio del trattamento isolato dei redditi sancito dall’articolo 152, comma 2, del TUIR”.
Simmetricamente, si ritiene che il principio del trattamento isolato possa valere anche per i singoli elementi reddituali prodotti all’estero dalle imprese residenti, in assenza di una stabile organizzazione. Ciò consente di considerare i suddetti elementi “prodotti all’estero” secondo criteri speculari a quelli per essi previsti dall’articolo 23 del Tuir, con il conseguente riconoscimento del credito per le imposte ivi pagate.
Situazioni analoghe (ma non identiche) si potrebbero produrre in forza di una differente qualificazione del reddito nelle discipline dei due Paesi, come spesso accade nelle ipotesi dei c.d. “servizi tecnologici” (compensi per l’utilizzazione di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di marchi d’impresa nonché di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico), qualificabili e tassati come royalties nello Stato estero. Anche in tal caso, dunque, si ritiene che la qualificazione italiana prevalga su quella estera e, pertanto, le imposte pagate all’estero saranno accreditabili dalle imposte dovute in Italia solo se i redditi siano riconducibili ad una delle autonome categorie dell’art. 23, secondo i criteri della legislazione italiana.
Se la vicenda di cui sopra è risolta positivamente, non altrettanto può dirsi nelle situazioni in cui un’impresa residente produca all’estero redditi che non siano riconducibili a una delle singole categorie previste dall’articolo 23 del Tuir. Tipicamente trattasi dei redditi di natura commerciale, in assenza di stabile organizzazione estera.
La situazione può presentarsi, ad esempio, quando:
- lo Stato estero adotta una definizione di stabile organizzazione diversa da quella adottata dal legislatore italiano (ad esempio, un cantiere di costruzione, di montaggio, di installazione, ovvero l’attività di supervisione ad esso connesse che dura un solo mese, rispetto ai tre previsti dall’articolo 162, comma 3 del Tuir);
- lo Stato estero assoggetta a imposizione i redditi commerciali prodotti nel proprio territorio anche in assenza di una struttura definibile come stabile organizzazione.
Ove manchi la Convenzione, il riferimento “di sussidio” all’articolo 23 del Tuir determina che:
– il reddito derivante da prestazioni commerciali effettuate in un altro Stato in assenza di una stabile organizzazione non si considera prodotto all’estero;
– le imposte ivi pagate non risulteranno dunque detraibili in Italia.
Al fine di evitare il pagamento di imposte su imposte, i tributi esteri possono essere considerate componenti negativi deducibili ai fini della determinazione del reddito complessivo in quanto costi inerenti l’attività d’impresa (si veda, al riguardo, la Risoluzione 12 marzo 1979, n. 416).
In tal senso, risultano superati i timori di dover applicare le differenti conclusioni cui si sarebbe giunti con una applicazione “rigida” del disposto dell’articolo 99 del Tuir che, invece, sancisce la non deducibilità delle imposte sui redditi.
Avendo evocato la deducibilità delle imposte estere in tali specifiche situazioni, la Circolare si affretta a precisare che a medesime conclusioni non si può giungere in merito alla quota parte di tributi esteri non accreditabile in Italia per effetto del precipuo meccanismo di funzionamento dell’articolo 165 del Tuir.
Pertanto, la eventuale eccedenza di imposta rispetto a quella recuperabile non risulta deducibile né in altro modo recuperabile in Italia.
A livello contabile, pertanto, si potrà scegliere una delle due seguenti soluzioni:
- addebitare a conto economico l’intero importo delle imposte estere, salvo stornare la quota parte recuperabile ai sensi del meccanismo delineato dal Tuir; l’eccedenza resterà componente di reddito non deducibile fiscalmente;
- stanziare in una voce di credito le imposte estere, salvo poi stornare la eccedenza non recuperabile facendola transitare a conto economico in una componente negativa non deducibile.