Rapporto tra sentenza penale e processo tributario
di Luigi FerrajoliIn linea generale, alla luce delle novità introdotte dal D.Lgs. 74/2000 e per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, alla pronuncia penale non può essere riconosciuta alcuna autorità di cosa giudicata nel giudizio tributario e il giudice fiscale non può che limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, non potendo estenderne automaticamente gli effetti sull’azione accertatrice del singolo ufficio tributario.
Ne deriva che il contenuto delle prove acquisite nel procedimento e nel processo penale devono essere, se ritualmente prodotte in giudizio, liberamente esaminate dal giudice tributario, che può ricostruire il fatto storico in virtù delle medesime circostanze già oggetto di esame da parte del giudice penale, purché venga posto in essere un distinto procedimento valutativo degli elementi probatori secondo le regole – anche riferite al diverso regime di prova – vigenti in campo tributario.
La sentenza penale, ma, più in generale, gli atti del procedimento penale, costituiscono infatti – nella prospettiva del giudice tributario – documenti acquisibili ex articoli 24, 32 e 58 D.Lgs. 546/1992.
Nell’impossibilità di attuare, dunque, automatismi probatori, i dati e le informazioni veicolati nell’ambito del processo penale costituiscono, di norma, indizi o elementi di prova per il giudice tributario che non può limitarsi a richiamare il semplice dispositivo della sentenza penale, essendo invece chiamato a prendere in considerazione gli elementi da essa desumibili per procedere ad una propria autonoma ricostruzione dei fatti, dando conto della consistenza degli elementi di prova complessivamente acquisiti e delle ragioni del proprio convincimento.
Sotto diverso profilo, il giudice tributario non può recepire acriticamente le conclusioni a cui è addivenuto il giudice penale, bensì – nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio agli atti – deve procedere ad un apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio.
In altri termini, rispettando le regole della distribuzione dell’onere della prova proprie del relativo processo, il giudice tributario deve autonomamente valutare tutti gli atti di un procedimento penale e può legittimamente fondare il proprio convincimento sulle prove acquisite nel giudizio penale, prescindendo dal fatto che il processo penale sia stato definito o meno con una pronuncia avente efficacia di giudicato.
Con l’ordinanza 6295/2018, la Corte di Cassazione, chiamata a decidere di una questione vertente sul tema del “regime del margine Iva”, ha stabilito che il cessionario – al quale l’Amministrazione finanziaria contesti, in base ad elementi oggettivi e specifici, la fruizione di tale speciale regime impositivo – deve provare la propria buona fede, dimostrando di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di “aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto – secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto – al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a farne insorgere il sospetto”.
La Corte di Cassazione, nella circostanza, ha ritenuto erronee le valutazioni sulle quali era stata fondata l’impugnata sentenza emessa dalla Commissione Tributaria Regionale del Molise, ritenendole – per fini di più specifico interesse della presente disamina – “in ulteriore contrasto con gli insegnamenti delle Sezioni unite là dove posto l’accento sul fatto che gli imputati erano stati assolti dai reati con i quali si ipotizzava la partecipazione dell’importatore italiano agli illeciti commessi dai cedenti esteri”.
A giudizio della Suprema Corte “ragionando in questi termini, la Ctr ha riconosciuto implicitamente la rilevanza di uno stato soggettivo che è del tutto irrilevante, posto che la responsabilità del cessionario non è legata al dolo, ma un difetto di diligenza nella verifica delle condizioni di applicabilità del regime del margine”.
In proposito, la Suprema Corte ha ritenuto doveroso ribadire come “in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sè inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario (Cass. n. 16262/2017; n. 8129/2012; n. 19786/2011)”.