Reati in materia di sicurezza sul lavoro: Modelli 231/2001 e colpa di organizzazione
di Andrea OnoriLa sicurezza sul lavoro è un’area di rischio trasversale che copre praticamente tutti i settori economici, da quello industriale a quello artigianale, da quello dei servizi a quello commerciale, sia in ambito privato che pubblico.
Proprio per tale estensione i rischi penali associati a tale area sono rilevanti nell’ambito del sistema delle responsabilità di cui al Decreto Legislativo 231/2001 (da qui in avanti “Decreto”).
All’interno del Decreto, i reati connessi con violazioni delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro, sono individuati all’articolo 27-septies e si riferiscono nello specifico ai Reati di omicidio colposo (articolo 589 c.p.) e ai Reati di lesioni colpose gravi o gravissime (articolo 590 c.p.).
Due recenti sentenze della Corte di cassazione si sono espresse in merito alla responsabilità d’impresa relativa ai reati sul lavoro.
Il Supremo Collegio, Sez. 4, Penale, con sentenza n. 51455/2023, ha evidenziato come la responsabilità da reato delle persone giuridiche si fonda sulla colpa di organizzazione che si realizza mediante l’inosservanza da parte della società «dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli».
La sentenza continua specificando che l’illecito dell’ente è costituito da una fattispecie giuridica complessa dove «il reato presupposto è uno degli elementi essenziali e ciò che fa di esso un illecito “proprio” dell’ente è […] l’ulteriore elemento essenziale [della] colpa di organizzazione».
Tale colpa di organizzazione sussiste quando vi è una «mancata adozione e inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e gestione» di cui agli articoli 6 e 7 del Decreto, nonché all’articolo 30, D.Lgs. 81/2008.
Si deve, comunque, evidenziare il fatto che il verificarsi di un reato non sta a significare che il Modello adottato non è idoneo, ovvero attuato inefficacemente.
Ulteriore punto fondamentale rappresentato dalla Suprema Corte è il fatto che il Modello Organizzativo non coincide con il sistema di gestione della sicurezza del lavoro incentrato sul Documento di Valutazione dei Rischi (DVR).
Mentre quest’ultimo documento individua i rischi implicati dalle attività lavorative e determina le misure per eliminarli o ridurli, il MOG (Modello di Organizzazione e Gestione) è «strumento di governo del rischio di commissione dei reati» da parte dei soggetti apicali.
Il Modello, secondo quanto previsto dall’articolo 30, D.Lgs. 81/2008, non si riduce al DVR o al POS, ma «configura un sistema aziendale preordinato al corretto adempimento delle attività di valutazione del rischio» delineando l’infrastruttura che permette il corretto assolvimento dei doveri di prevenzione, derivanti dalla normativa di settore e dalla stessa valutazione dei rischi.
La seconda sentenza che si ritiene di dover segnalare nell’ambito degli infortuni gravi sul lavoro è quella della Terza Sezione della Cassazione Penale (sentenza n. 4210/2024).
In premessa, la sentenza in analisi evidenzia come secondo le Sezioni Unite del Supremo Collegio, in tema di responsabilità amministrativa degli enti derivanti da reati colposi di evento, i criteri di imputazione oggettiva dell’interesse o del vantaggio sono alternativi e concorrenti tra di loro, «in quanto il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito, da valutare entrambi avendo come termine di riferimento la condotta e non l’evento».
Nelle vicende affrontate dalla sentenza in commento, la Corte ha ritenuto sussistenti entrambi i criteri di imputazione oggettiva dell’interesse e del vantaggio.
Con riferimento al criterio di imputazione rappresentato dall’interesse è stato evidenziato che «gli autori del reato avevano consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di conseguire un’utilità per l’ente costituito dall’evidente risparmio economico connesso alle spese – non effettuate – relative alla formazione professionale dei lavoratori assegnati all’attuazione dell’operazione di manutenzione, alla protocollazione delle procedure manutentive ed alla predisposizione di segnaletica di pericolo» oltre al fatto che gli stessi decisero di «far eseguire l’attività di manutenzione di notte e, dunque, in condizioni di minorata visibilità, e con personale ridotto, in modo più rapido e meno costoso, al fine di recare il minor intralcio possibile all’attività produttiva».
La sentenza prosegue ricordando che l’ente risponde di un fatto proprio e non per un fatto altrui sicché il giudice di legittimità, anche in questo caso, ha affermato la «necessità che sussista la c.d. colpa di organizzazione dell’ente, il non avere cioè predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato; il riscontro di un tale deficit organizzativo consente una piena e agevole imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo».
La “colpa di organizzazione” dell’ente ha la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, quale elemento costitutivo del fatto tipico.
La Corte ha affermato, inoltre, che l’assenza del modello, la sua inidoneità o la sua inefficace attuazione non sono «ex se» elementi costitutivi dell’illecito dell’ente.
Bensì sono elementi costitutivi dell’illecito:
- la compresenza della relazione organica e teleologica tra il soggetto responsabile del reato presupposto e l’ente (cd. immedesimazione organica “rafforzata”);
- la colpa di organizzazione;
- il reato presupposto;
- il nesso causale che deve correre tra i due (colpa/reato).
Da ultimo, nelle vicende oggetto della sentenza sono stati evidenziati i seguenti elementi comprovanti la responsabilità da reato dell’ente:
- il reato presupposto accertato era addebitabile a figure apicali della società, che avevano violato sistematicamente la normativa cautelare allo scopo di conseguire un’utilità per l’ente;
- risultava la mancata predisposizione ed attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente agli articoli 6 e 7, D.Lgs. 231/2001. 231/2001 e all’articolo 30, D.Lgs. 81/2008;
- emergeva un deficit organizzativo complessivo comportante la mancata predisposizione di accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato dimostrativo della condotta colpevole della società e dotato di incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto (omessa adeguata formazione in maniera stabile dei dipendenti, assenza di protocolli per interventi di manutenzione complessi e formazione della relativa squadra, assenza dei divieti di accesso al silos durante lo svolgimento della procedura di manutenzione, carenza di valutazione del rischio sistemico a livello organizzativo; violazione delle regole cautelari stabile e permanente).